Simposio21: un convivio filosofico anti-populista davanti casa Grillo

Sabato 27 ottobre avrà luogo Simposio21, un incontro per discutere attorno a un tavolo quale filosofia si può contrapporre a quella demo-populista. L’evento è organizzato da Alessandro Chelo che ospiterà gli invitati proprio davanti la casa di Beppe Grillo

Un Simposio “dall’altra parte della strada”. Il Simposio sarà un vero simposio, anche se anziché nell’Atene del V secolo a.C si terrà sulla collina di Sant’Ilario a Genova sabato prossimo, dall’altra parte della strada, non solo simbolicamente, rispetto alla casa di Beppe Grillo. E come in tutti i simposi che si rispettino si parlerà, anche se in modo non professionale e non scientifico, di filosofia e di politica, cioè delle idee che animano la vita di una polis, quella italiana, che sembra dominata dalla retorica e dalla logica del “voto contro” e dall’irrazionalismo antipolitico.

“L’antipolitica non è un mero contenitore di vuoto, di ignoranza e di passioni cieche; è un vero ‘pensiero’, oltre che un sofisticato esperimento di ingegneria sociale. Sarà difficile averne la meglio se continueremo a combattere la sua ombra, anziché la sua essenza”. Alessandro Chelo, che è l’organizzatore di Simposio21 (come il secolo), nonché il vicino di casa di Grillo, si potrebbe definire ironicamente uno “psicologo dell’impresa”. È un consulente che aiuta i manager a gestire organizzazioni complesse e interazioni umane potenzialmente molto conflittuali. Ha lavorato per grandi imprese italiane e straniere e raccolto le sue esperienze in diversi libri. Gli ultimi: Il tempo della leadership, per Guerini e Il dono dell’imperfezione, per Feltrinelli.

Malgrado la sua esperienza professionale, tende a guardare ai fenomeni politici in modo, per così dire, classico: più con la chiave della critica ideologica che della psicologia sociale. “Sbaglia chi pensa che dietro il successo del M5S ci sia semplicemente il sistema ‘Rousseau’ della Casaleggio e dietro quello di Salvini la ‘Bestia’ di Morisi. Dietro queste macchine efficienti di persuasione e di consenso c’è un’offerta culturale precisa, c’è un prodotto che parte dalle idee e dalle idee, anche quando oscurantiste, trae la gran parte della propria forza.”

Chelo sabato prossimo ha invitato a casa sua, sulla collina di sant’Ilario a Genova, una ventina di persone, tra cui il sottoscritto, raggranellate con un passa parola personale e digitale e intercettate per lo più sulla rete. Una compagnia molto variegata e irregolare, né troppo umanistica, né troppo scientifica, né troppo politica, né troppo intellettuale. C’è un epistemologo, Renato Carpi e un ingegnere, Pietro Misurale, un’economista, Carlo Stagnaro e uno scrittore e critico letterario, Matteo Marchesini, qualche giornalista, qualche giurista, un teologo, un manager…
Siamo stati invitati però per parlare non Di Salvini e di Di Maio ma, come dice Chelo, “dell’alternativa assente, dei fondamenti pre-politici, cioè culturali, di una politica che esca dalla logica dell’assedio e della pura resistenza. L’antipolitica, come tutte le ideologie, risponde a domande profondamente esistenziali, di identità, di sicurezza, di giustizia. Cosa abbiamo da proporre noi? La mia impressione è che non abbiamo da proporre niente che non esca dai magazzini della memoria, dall’archeologia ideologica otto-novecentesca. Nella sostanza delle risposte a bisogni che non ci sono più e delle non risposte ai bisogni presenti. E parlo, innanzitutto, di cultura e di idee che rispondano ai desideri delle persone, non solo ai loro bisogni materiali”.

La tua tesi è che i populisti stanno vincendo la battaglia delle idee e per questo poi vincono le elezioni. Nella sostanza, loro hanno trovato un modo 4.0 per stare nel mondo 4.0, mentre i non populisti arrancano nei pressi della prima rivoluzione industriale, quella della macchina a vapore…
“I populisti non vincono perché usano Internet meglio dei non populisti, ma perché propongono una visione antropologicamente più precisa e contemporanea della realtà dell’Occidente”.

Mutatis mutandis, è un po’ come con il fascismo, che i liberali ingenui giudicavano come una semplice febbre della modernità, una parentesi nella storia dell’Italia, o un regime di pura violenza, mentre era in primo luogo un progetto di governo profondo della società e delle coscienze, e non solo dello Stato, e partiva da una comprensione altrettanto profonda di una fase storica esplosiva…
“Diciamo che c’è un’analogia, non una vera somiglianza. Anche il fascismo appartiene all’archeologia politica novecentesca. È vero che le proposte populiste sembrano pescate di peso dal baule del pensiero reazionario dell’altro secolo – nazionalismo, protezionismo, etnicismo… – ma affondano le loro radici anche nella cultura politica della sinistra: la retorica del popolo, della figura del ribelle che lo rappresenta e del nemico su cui scaricare ogni colpa”.

Stiamo parlando dell’Italia, ma nel mondo, dalle Filippine di Duterte al Brasile di Bolsonaro, passando dalla Russia di Putin e arrivando agli Usa di Trump, il successo dei politici populisti è indiscutibile e la loro cifra culturale a metà tra il pulp e il trash. È uno tsunami planetario.
“È vero, ma se rimaniamo nei paesi occidentali, diciamo euro-atlantici, il caso italiano è davvero speciale. Qui la capitolazione culturale è stata ancora più rovinosa, e il successo populista ha numeri e ambizioni quasi totalitarie. Dai pensatori liberali agli ex agit prop della sinistra più gauchista l’unica linea di pensiero che emerge sembra essere quella di provare a “civilizzare i barbari”, cioè di arrendersi. Io penso invece che occorra porre le basi ideali per costruire un’alternativa che non sia puramente ‘contro’, ma sia piuttosto ‘dall’altra parte della strada’”.

Non solo i politici, ma anche i politologi, sembrano abbastanza attardati nell’analisi del successo populista, che secondo la vulgata sarebbe l’esito di una sorta di lotta di classe “da destra”, guidata dagli sconfitti della globalizzazione economica e demografica, mentre la realtà sociale dell’elettorato populista è assai più trasversale e interclassistica, al punto da fare della coalizione pentaleghista il vero “partito della nazione”. Per fare un esempio, la Lega protezionista e antieuropea che fa il pieno di voti nelle regioni più esportatrici d’Italia dimostra in modo eloquente che il voto populista non è un “voto di interesse”, ma un “voto di guerra”.
“Proprio perché è in primo luogo un voto ideologico. Lo so che la mia può sembrare una risposta banale. Ma è così. La gente non vota con il portafoglio, ma con le idee, che hanno certo un rapporto anche con le ragioni del portafoglio, ma pure, per parafrasare Pascal, con delle ragioni che il portafoglio non ha. Per competere su questo piano è necessario costruire una diversa narrazione dell’epoca 4.0. Se vince il racconto che ne fa solo un’epoca di minaccia, spossessamento, precarietà, senza opportunità, senza bellezza, senza speranze di progresso ed emancipazione, ovviamente vincerà sempre un Salvini in Italia e un Trump negli Stati Uniti.

Sabato ci hai promesso che sarai oltre che un ospite, anche un vero “simposeuta”. Cioè gestirai il simposio secondo le regole classiche. Si parlerà a tavola, con regole e ritualità mutuate da quelle della Grecia antica.
“Lo so che può sembrare una cosa strana o una megalomanica carnevalata. In realtà nella mia esperienza professionale ho spesso usato il simposio come luogo e metodo di discussione e analisi di problemi aziendali. Per le sue caratteristiche consente il massimo della convivialità, ma anche dell’attenzione critica alle questioni trattate. Poi mi direte se nel nostro caso funzionerà”.

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