Già nel nome, la “manovra del popolo” porta con sé un’inquietante eco di rivendicazione anti-elitaria. Questa manovra, si intende, è scritta dal popolo e per il popolo, a differenza delle precedenti che invece erano state scritte da professoroni, occhialuti, laureati e amici delle banche. Questa manovra, si intende, è finalmente scritta chiara (non hai un lavoro? 780 euro per te. Vuoi la pensione? Con 62 anni e 38 di contributi ce l’avrai), a differenza delle altre che si addentravano in nebulosi calcoli attuariali e in nome di un complesso equilibrio intergenerazionale non generavano altro che un unico output: la fregatura.
Per questo stupisce trovare dentro alla manovra un barlume di merito e di riconoscimento per chi si è impegnato negli studi: il bonus per i 110 e lode. Tra le novità che sono emerse si legge infatti che sarà previsto uno sconto fiscale di 8mila euro all’anno per chi assume un laureato (non fuori corso) che abbia conquistato il titolo di studio con il massimo dei voti e con la lode. È il “bonus cervelloni”.
Per quanto la misura sia ridicolmente esigua rispetto alle altre poste in gioco, per quanto lo stanziamento (70 milioni di euro in due anni) riesca a coprire solo 6mila assunzioni all’anno, non si può negare che averla trovata tra le pagine della manovra sia una scoperta lieta e ricostituente. Forse la meritocrazia non è scomparsa del tutto dalla politica di questo Paese.
Se uno non vale uno, perché non ci fidiamo della comunità scientifica che unanime chiede l’obbligo vaccinale? Se uno non vale uno, perché devo dare 780 euro a chi non lavora o, peggio, a chi lavora in nero? E che senso ha andare in pensione tutti quanti a 62 anni?
I laureati eccellenti che escono ogni anno dalle nostre accademie sono circa 7 mila. Seimila saranno assunti con gli sgravi fiscali, qualcun altro sarà assunto comunque dalle aziende italiane che meglio reggono la competizione internazionale, gli altri, lo sappiamo bene, se ne andranno all’estero. Se si mettono sul piatto i 70 milioni previsti per aiutare le eccellenze e i 9 miliardi stanziati per aiutare chi non ha e non riesce a trovare lavoro, si capisce bene chi questo governo ha deciso di tutelare, nel pieno rispetto tra l’altro, del mandato ricevuto dagli elettori.
Proprio per questo, nel tenore generale di una manovra che è stata scritta intingendo la penna nella rabbia, merita tutta la nostra cura il piccolo barlume di illuminismo che emerge nel riconoscere che esistono anche le eccellenze e che le eccellenze sono frutto di impegno, studio e competenza. Premiare i 110 e lode significa ammettere che no: uno non vale uno. Significa seminare un dubbio nella rivendicazione anti-elitaria su cui regge la manovra del popolo.
Se uno non vale uno, che senso ha proporre di abbattere il numero chiuso nelle facoltà universitarie che ce l’hanno? Se uno non vale uno, perché non ci fidiamo della comunità scientifica che unanime chiede l’obbligo vaccinale? Se uno non vale uno, perché devo dare 780 euro a chi non lavora o, peggio, a chi lavora in nero? E che senso ha andare in pensione tutti quanti a 62 anni? Non è meglio distinguere gli usurati che davvero meritano di andarci, da chi invece dovrebbe continuare a lavorare per preservare l’equilibrio di quel patto generazionale che sembra così astruso da capire ma che si può anche spiegare con parole molto semplici: se i soldi che ci sono se li prende oggi un 62 enne, per i giovani del futuro non ce ne saranno più, che siano laureati oppure no.