“Oggi è un giorno triste” (Juncker), “Una situazione in cui perdiamo tutti” (Tusk), “Sono triste e sollevata che abbiamo raggiunto questo accordo” (Merkel), “Restiamo amici” (ancora Tusk). Ci manca giusto “non sei tu, sono io” e il repertorio dei cliché di quando si viene lasciati sarebbe completo. Ma nella Brexit, perché di questo stiamo parlando, paradossalmente il ruolo di colei che lascia spetterebbe alla Gran Bretagna e quello del lasciato alla Ue. Come mai allora a giudicare dai commenti – incluso il “io non sono triste, è il momento di andare avanti” di Theresa May, parafrasi del più celebre “sto benissimo, ho più tempo per me” – sembra l’esatto contrario? Forse il motivo è che questa famigerata Brexit si è trasformata nel corso degli ultimi due anni in una vittoria per l’Unione europea e in una semi-catastrofe per Londra.
I 27 Stati membri dell’Unione hanno infatti dato una insperata prova di compattezza nel gestire il lungo addio della Gran Bretagna e hanno potuto toccare con mano la forza della propria solidità, specie nel confronto col diviso, litigioso e pieno di dubbi Regno Unito. L’erede dell’Impero britannico esce infatti con le ossa rotte dalla trattativa: i conservatori hanno prima perso il loro golden boy, David Cameron, poi sono quasi riusciti a pareggiare delle elezioni anticipate che avevano convocato per rafforzarsi, poi si sono divisi tra falchi e colombe sull’ipotesi di accordo con la Ue con una raffica di dimissioni di ministri e sottosegretari, e ora nei sondaggi sono dati sotto ai laburisti.
I 27 Stati membri dell’Unione hanno infatti dato una insperata prova di compattezza nel gestire il lungo addio della Gran Bretagna e hanno potuto toccare con mano la forza della propria solidità, specie nel confronto col diviso, litigioso e pieno di dubbi Regno Unito
Ma anche al di là delle vicende di un pur storico e fondamentale partito, il Regno sembra meno Unito che mai come Stato e come Nazione. Non solo la Scozia scalcia di fronte all’ipotesi della Brexit, contro cui ha votato al momento del referendum, ma anche Galles (che pure ha votato in maggioranza “leave”) e Nord Irlanda non fanno mistero dei propri mal di pancia. In particolare l’Irlanda del Nord rischia di essere un problema per la May: i suoi alleati di governo, i nazionalisti nordirlandesi del Dup, minacciano di non votare l’accordo per la Brexit mediato dalla premier, e i loro numeri sono fondamentali in Parlamento.
Questo accordo è infatti una Caporetto per i falchi della Brexit nonché per il Dup, visto che non solo tiene di fatto il Regno Unito ancorato per un tempo potenzialmente indefinito alle regole e alle decisioni europee, e gli impone di pagare un assegno generoso alla Ue, ma di fatto – per garantire che non venga spaccata in due l’Irlanda – rischia di separare l’Ulster dal resto della Gran Bretagna. Ciliegina sulla torta: tutto questa impalcatura pericolante che chiamiamo “accordo sulla Brexit” rischia ancora di crollare all’ultimo minuto. Il governo May potrebbe cadere, l’accordo con la Ue potrebbe essere bocciato, addirittura potrebbe servire un nuovo referendum per confermare l’esito dello scorso del 2016.
L’Unione Europea sarà anche debole nel confronto con gli Usa o con la Cina, ma è molto più forte dei suoi singoli Stati membri, per quanto questi possano essere grandi, popolosi ed economicamente sviluppati
Che la Ue si sia, almeno per certi versi, rafforzata lo si vede anche da un altro dossier, che stavolta ci vede seduti in prima fila: quello dello scontro, interno all’Eurozona, tra l’Italia e tutti gli altri. Il “governo del cambiamento” pensava di aprire la Ue come una scatoletta di tonno, battere – stavolta per davvero – i pugni sul tavolo strappando chissà quali concessioni, e invece sembra che otterrà meno flessibilità dei governi precedenti, farà probabilmente subire al Paese una salata procedura d’infrazione e in generale con le proprie dichiarazioni roboanti su Ue ed euro pare sia riuscito a causare una tale instabilità economica (spread e dintorni) da rendere già oggi inattuali le stime e le previsioni di crescita inserite nella bozza della “manovra del popolo”. Ecco che allora anche tra gli italici sovranisti sembra che inizino a serpeggiare dubbi, ripensamenti, rimorsi, ipotesi di parziali (ma quanto parziali?) marce indietro. Forse non siamo too big to fail, troppo grandi per essere lasciati andare in malora. Forse non avremo la sponda di altri governi. Forse abbiamo sbagliato i nostri calcoli. Pare lo abbia detto Savona, pare lo pensino sempre più persone anche all’interno del governo.
Che nell’Eurogruppo sia finita 18 contro 1 infatti non è un mistero, con l’Italia isolata, abbandonata anche da quei governi “amici” come quello ungherese di Orbàn e quello austriaco di Kurz, con anzi quest’ultimo a fare la parte del cane da guardia dell’austerità. E il sogno di un ribaltone in seno all’Unione Europea con le prossime elezioni di maggio 2019 pare dai sondaggi destinato a rimanere appunto un sogno: sì, i populisti-sovranisti guadagneranno qualche seggio, ma il pallino delle decisioni europee dovrebbe restare nelle mani di popolari, socialisti e liberali. Esattamente come adesso. Ecco allora che forse sarebbe meglio correre ai ripari e imparare la dura lezione che ci viene da oltre Manica. L’Unione Europea sarà anche debole nel confronto con gli Usa o con la Cina, ma è molto più forte dei suoi singoli Stati membri, per quanto questi possano essere grandi, popolosi ed economicamente sviluppati. Sfidarla apertamente significa andare a cercarsi una risposta dura e ricompattare tutti gli altri Stati contro il “nemico comune”. È successo a Londra, e stiamo vedendo con che esiti, speriamo non succeda a Roma.