Poche cose facevano arrabbiare Umberto Eco più di quei visitatori che, entrando in casa sua e vedendo i suoi 30mila libri, chiedevano “Ma li ha letti tutti?”.
La risposta era ovvia: no. Eco, come tutte le persone che amano i libri, ne possedeva più di quanti ne avesse letti. Anzi, più di quanti gli fosse possibile leggere nel corso di tutta la vita vita. Una volta calcolò che, se avesse letto un libro al giorno dall’età di dieci anni fino agli 80 sarebbe arrivato fino a 25mila volumi. “Un’inezia”, visto che ne esistono milioni che avrebbe voluto leggere e che, a conti fatti, non avrebbe mai letto.
Eppure queste caterve di libri che, minacciosi, guardano dagli scaffali in attesa del momento di essere letti, hanno una loro utilità. Aiutano il lettore a coltivare quella che, secondo lo statistico Nassim Nicholas Taleb, andrebbe chiamata “umiltà intellettuale”. Un concetto che, in poche parole, si può riassumere in: non importa quanti libri si sono letti, importa di più quanti se ne vogliono ancora leggere. Questi libri costituiscono, di fatto, una “antibiblioteca”, cioè una biblioteca i cui volumi funzionano al contrario: danno pungoli intellettuali senza essere letti. Anzi, proprio perché non sono letti.
Vista in questo modo, non leggere diventa perfino una attività virtuosa: coltiva la coscienza di ciò che non si conosce e che, invece, si dovrebbe (e vorrebbe) conoscere. Come sostiene sempre Taleb, “all’aumentare dei libri letti aumentano, in una proporzione almeno del doppio, i libri non letti”. Chi più sa, più cerca di sapere. E più riconosce di non sapere.
Non è una novità: almeno dai tempi di Socrate, sapere di non sapere è una condizione riconosciuta da parte di chi, come il filosofo o lo scienziato, non smette di interrogarsi o di essere curioso. Ma imbastire un’intera libreria per tenerlo a mente ogni giorno forse è un po’ esagerato.