Contesa da tutti, compresa da nessuno, la fantomatica «pancia del paese» è il punto ombelicale del discorso pubblico contemporaneo. Ma cosa succede se ad auscultare i borborigmi che giungono dal suo interno è uno studioso della lingua italiana?
Sciacquati la bocca è il racconto della lingua italiana vista dal basso. Arcangeli mostra una lingua che è spazio discontinuo di un caos ordinato, creativo: perché chi dice volgarità ha un serbatoio linguistico più libero e ricco, come sapevano Dante Alighieri, Leonardo da Vinci e Carlo Emilio Gadda.
Massimo Arcangeli è un linguista e critico letterario, ordinario di Linguistica italiana presso l’Università di Cagliari . È consulente scientifico per la Società Dante Alighieri e direttore di festival culturali. Collabora con l’Istituto Enciclopedia Italiana Treccani e con numerose testate.
Un estratto da Sciacquati la bocca. Parole, gesti e segni dalla pancia degli italiani (Il Saggiatore)
Se il linguaggio non verbale del cinema italiano muto risente di un’artefatta teatralità melodrammatica, tanto appare caricato, anche con l’avvento del sonoro non mancano esempi di una gestualità piena o esagerata, come quella di Massimo Troisi: da antologia la sua corporeità compulsiva e civettuola in Ricomincio da tre (1981), quasi un rituale preparatorio alla notte d’amore con l’infermiera Marta (Fiorenza Marchegiani), e, nello stesso film, i duetti dell’attore e regista con Lello Arena a forza di mosse e contromosse, di tocchi e di ritocchi.
Contrapposto alla compostezza degli inglesi, alla rigidità tedesca, ai moderati movimenti delle braccia e delle mani dei francesi, lo smodato gesticolare italico ci ha lasciato un ineguagliabile ricordo nel dialogo muto a distanza fra Giancarlo Giannini e Mariangela Melato in Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), di Lina Wertmüller. Un piccolo campionario di italici gesti autonomi – distinti da quelli coverbali, compagni delle parole – è ancora il dialogo muto fra Carlo Verdone e Margherita Buy in Maledetto il giorno che t’ho incontrato (1992), per la regia dello stesso Verdone. In un altro film della Wertmüller, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974), c’è una scena a tre fra Melato, Giannini ed Eros Pagni che riproduce, nelle parole e nelle pose, altrettanti tipi italici o giù di lì: la Melato, con i suoi atti verbali e movimenti a tratti isterici, ma intimamente snob (anche quando cede al turpiloquio), manifesta i toni di una superiorità settentrionale che scaglia i suoi anatemi, a suon di sventagliate di erre moscia e di tirate abortiste, ecologiche e anticomuniste, contro la «civiltà di massa» e i «morti di fame» di un’Italia colpevolmente prolifica; Pagni, convinto comunista, risponde colpo su colpo alle affermazioni dell’attrice, via via accendendosi e sfoderando tutto il repertorio di genere del capitolino scomposto, sguaiato, urlante; Giannini, marinaio siciliano dai modi rozzi e pure lui comunista (fa l’attivista, e in posizione di rilievo), lancia alla donna sguardi infuocati senza affrontarla verbalmente. Schiuma rabbia ma il suo è un livore sordo, quello del sottoposto che ribolle ma non sbotta, sfogandosi in proprio o col collega di bordo. Un livore pur sempre italico, ma da isolano. Implode, come imploso è il suo corpo. Chissà come si sarebbe comportato se avesse condiviso con gli altri il tavolo su cui mangiare.
Il modo di sedere, come il modo di gesticolare (cinesica) o di vestire (vestemica), di camminare, di salutare o di dormire, non è solo, delle componenti non verbali del comportamento umano, una fra le più studiate dall’etnografia e dall’antropologia popolare; è anche, quando ci troviamo a tavola, una posizione del corpo utile a reimpostare la distanza che mettiamo fra noi e l’attività del mangiare – cibi e bevande, ma anche strumenti, contenitori, accessori vari – come distanza fra persone che interloquiscono o interagiscono (prossemica). La diversa postura assunta abitualmente in tavola, fra un pasto e l’altro, da un bambino inglese e uno francese, il primo con i gomiti ben ancorati al corpo e il secondo con gli stessi piantati sul desco “a ventaglio”, potrebbe suggerire riflessioni interessanti sull’antropologia italica dell’attavolamento restituita, ancora una volta, dall’immaginario cinematografico.
In una scena di Miseria e nobiltà (1954) Totò e gli altri quattro attori seduti assistono prima composti, a debita distanza, alla preparazione della tavola da parte di un cuoco e di due suoi aiutanti; si avvicinano quindi al cibo sempre composti, saltello dopo saltello (sulle sedie); si avventano infine sull’insalatiera fumante, ricolma di spaghetti, che troneggia in centrotavola, mangiando la pasta con le mani e, nel caso di Totò, salendo addirittura sul desco. Un pranzo animalesco, e ce lo suggerisce il comico stesso: gli passa davanti un allettante pollo arrosto e protende il capo per annusarlo, come farebbe un cane; solleva le braccia dalle gambe e le piega a squadra in avanti, abbassando le mani, come quel cane atteggerebbe le zampe anteriori nella trepidante attesa dell’agognatissimo cibo; intasca gli spaghetti che tornerà a mangiare quando sarà, come il cane porterebbe con sé il cibo in eccesso per sotterrarlo o nasconderlo da qualche parte in attesa di recuperarlo al momento opportuno.
GESTI DIVERSI
Molti studi sulla gestualità hanno affrontato il tema all’interno di una prospettiva di genere, in qualche caso viziata dal punto di vista antropocentrico; in storie ben note gli uomini fanno il pugno col pollice fuori, le donne col pollice dentro; gli uomini lanciano pietre in lunghezza, le donne in altezza. Ci sono poi i gesti che promanano da una sessualità altra da quella maschile e femminile, saccheggiati dal cinema brillante (in stile commedia all’italiana) e funzionali alla costruzione di un personaggio macchiettistico i cui connotati sono un lascito dell’avanspettacolo: quello di un omosessuale ben accessoriato (gli si fanno indossare collane, orecchini, bracciali ecc.), dagli abiti sgargianti e dalle movenze tutt’altro che virili. In una pellicola di Totò, L’imperatore di Capri (1949), l’attore napoletano, pur impegnato a destreggiarsi nel corteggiamento di capresi bellissime, si presenta a un tratto a Mario Castellani (Asdrubale Stinchi) con quei connotati, condivisi da altri due personaggi eccentrici: Dodo della Baggina (Galeazzo Benti) e Bubi di Primaporta (Gianni Appelius). L’eccentricità e la “futilizzazione”, marchio di fabbrica della modaiola e scicchissima isola partenopea, sono una garanzia per l’effetto sorpresa che provocano sulla preda:
Asdrubale: Mi sono informato, è una delle più belle donne di Capri. Un po’ stravagante, ma bella. Sarà una serata indimenticabile!
Totò: [la voce dell’attore è fuori campo] Eccomi qua!
Asdrubale: Eeeh… [l’esclamazione è di stupore, Totò non viene ancora inquadrato].
Asdrubale: [inquadratura di Totò che procede dalla testa ai piedi, per catturare ogni particolare e creare sorpresa] Ma perché ti sei conciato così? Ma come ti sei combinato? Ma in testa che cosa hai messo?
Totò: Mi son vestito alla caprese, alla Lallo, alla Foffo, alla Lello e Cecchini. Tu, piuttosto, non vorrai mica venire vestito così? Mi faresti sfigurare!
Asdrubale: Ma io non posso conciarmi così. Sono un attore serio!
Totò: Oggi per fare colpo bisogna essere eccentrici, futili! Tu ti devi futilizzare. Dai retta a me, futilizzati!
In un altro film, Totò a colori (1952), lo stravagante Poldo di Roccarasata (sempre Benti) consiglia al protagonista di sostituire la evve alla erre. Totò si trasforma così in Pupetto, e la sua cinesica è conseguente:
Poldo: Pupetto Montmartre di Champs-Élysées.
Totò: [saluta] Uuuh uuh.
Poldo: Allora ricordate le mie istruzioni. Camminata internazionale.
Totò: Sì.
Poldo: Stanchezza congenita.
Totò: Sì.
Poldo: E al posto della erre la evve.
Totò: Sì, al posto della evve la evve.
Poldo: Sì.
Totò: [si lecca la mano e si aggiusta il ciuffo] Mh mh mh, cavo. Oh, senti, e a chi debbo concupive?
Nell’Audace colpo dei soliti ignoti (1959), sequel di un capolavoro della filmografia nazionale (I soliti ignoti, 1958), uno dei rapinatori tutti da ridere, Nino Manfredi, il solo incensurato della scombinatissima banda, scuote il suo orecchio con una mano, in un dialogo con Gastone Moschin, a significare (o)recchione; una mossa riprodotta in tante altre pellicole:
Laureanda: Almeno così credeva il signor Rossi…
Prete: Ehm, era un po’… [toccandosi l’orecchio]
Presidente: Non lui, il figlio padre.
Prete: Padre e figlio?!
Presidente: No, il ricchione era il figlio padre.
Sesso in testa (1974)
Manolo: Ma non è che questo Andrea è un po’… eh! [toccandosi l’orecchio]
Contessa: Ma che ti importa, è tanto bravo. E poi i imigliori camerieri sono tutti un po’ così!
Manolo: A proposito, senti un po’: quand’è che hai scoperto di essere un po’…
Persichetti: Un po’ cosa, scusa?
Manolo: Dai, un po’… [toccandosi l’orecchio]
Persichetti: Ah, no. Credevo architetto.
Mani di fata (1982)
Donna: Ecco il suo amico. È simpatico, un po’ stranetto.
Mimmo: In che senso?
Donna: Ma, non so. Forse perché lavora nella moda: mi sembra un po’…
Mimmo: Ah, lei dice, un po’… [avvicina la mano all’orecchio]. No, si figuri. È maschio, ma maschio. Vede?
Vacanze di Natale ’91 (1991)
Donna: Ma perché, lui è un po’…? [fa ruotare la mano intorno all’orecchio]
Dado: Un po’, no. Tutto!
Uomini uomini uomini (1995)
Nicola: Totò, io no’ saccio comm’aggia fatto a difenderti con Renato. Tu vieni qua e mi chiedi pure un anticipo?
Antonio: E che difeso? Perché? Che ho fatto?
Nicola: Quello mi ha chiesto se sei: [facendo ruotare le mani intorno agli orecchi]
Antonio: Gay?
Nicola: Tu è inutile che parli pulito, tanto il significato è sempre lo stesso!
Ho visto le stelle! (2003)
Tantissime le leggende metropolitane sull’origine del gesto e della parola. Il gesto, di volta in volta: scaturirebbe dal collegamento fra gli orecchi e la parotite (orecchioni), che, se viene presa dopo la pubertà, può infiammare i genitali maschili (orchite) e rendere sterili o provocare un forte calo di produzione degli spermatozoi; sarebbe il ricordo di un gesto risalente alla Roma e alla Grecia antiche, quando si pagava una prestazione sessuale fra omosessuali con una moneta grande quanto il lobo di un orecchio (toccarselo avrebbe indicato il pagamento del “servizio”); indicherebbe la lettera G (l’iniziale di gay), che nel vecchio alfabeto muto si mima tirandosi il lobo dell’orecchio; alluderebbe al fatto che un omosessuale porterebbe un orecchino, generalmente all’orecchio destro, e sarebbe allora un gesto nato in seno alla cultura giudaico-cristiana. Se all’origine ci fosse davvero una mano portata all’orecchio, qualunque ne sia stata la motivazione di partenza, potrebbe esserne derivata la parola orecchione, da cui recchione (o ricchione). L’ipotesi di un collegamento fra un (o)recchione e un orecchio, per quanto plausibile, è però tutta da dimostrare e, anzi, negata dai più; si tende piuttosto a collegare recchione a un caprone o a una lepre, animali tradizionalmente lussuriosi.
In ogni caso una relazione, quella tra (o)recchione e orecchio, suggerita nei due scambi di battute che seguono. Il primo è tratto da Delitto al Blue Gay (1984); nel film, interpretato da Tomas Milian, Colomba (all’anagrafe Alfredo Nelli) è Colomba Lanar, la regina del Blue Gay, impersonata da Vinicio Diamanti. Nel secondo, ricavato da Sesso in testa (1974), l’omosessualità viene associata a una “malattia” provocata dagli orecchioni; i partecipanti allo scambio sono l’onorevole Totuccio, il cameriere Lucio e una prostituta:
Colomba: Al Caffè Greco, grazie.
Tassista: E ’ndo’ se trova? Nella borgata Finocchi?
Colomba: Prego, non ho capito bene…
Tassista: Strano che lei sia duro d’orecchi. Mi pare tanto ricchione…
Nicola: Senti un po’, aoh. Ognuno dalla farina sua ci fa gli gnocchi che gli pare.
Tassista: Chiamali gnocchi, chiamali…
Colomba: Monsieur le chauffeur, impicciarsi degli affari degli altri è un bruttissimo vizio!
Tassista: È bello er suo…
Totuccio: E tu spogliati, denudati, mettiti pure a letto. Il nettare degli dèi te lo servo io di motu propria!
Prostituta: Ma lui?
Totuccio: Non far caso a lui. È come una sorella! [ride]
Lucio: Grazie, onorevole.
Totuccio: [ride] Lui non fa caso al nudo femminile!
Lucio: Anzi, onorevole, mi fa senso. Per me le donne sono come i marziani: non esistono!
Prostituta: Ma allora sei…
Lucio: Finocchio, signora, per servirla!
Prostituta: E come ti è successo?
Lucio: Mah, stando a letto con gli orecchioni! [risatina]
Banditi a Orgosolo (1961), lungometraggio di Vittorio De Seta, premiato come opera prima al festival di Venezia, narra la storia di due fratelli, pastori di pecore. Il maggiore dei due, ritenuto ingiustamente complice di una banda di briganti che ha ucciso un carabiniere, si dà latitante per scampare alla prigione e alla fine, abbandonato il gregge morente in un’impossibile fuga tra le montagne, diventerà quel bandito che è accusato di essere: porterà via il gregge a un altro pastore che aveva allontanato i suoi animali esausti dalle pozze avare d’acqua in cui s’erano fermati a bere, prima che potessero finire di abbeverarsi. Il pastorello, poco prima dell’epilogo, fa ritorno in paese – il fratello lo raggiungerà poco dopo, prima di ripartire per sempre – e sbircia, dal di fuori, la scena che anima l’interno di un’abitazione: i presenti danzano al ritmo del “ballo sardo” (ballu sardu) o “ballo tondo” (ballu tondu). Conosciuto in tutta la Sardegna, il ballo tondo si esegue alternando passi lenti a passi accelerati e saltelli ed è uno dei tanti antichissimi balli di area mediterranea in cui il cerchio riveste funzione di magico cordone protettivo.
Si deve a Curt Sachs la distinzione fra balli «introversi» e balli «estroversi», rispettive espressioni di una società matrilineare e di una società patrilineare: i primi – si riaffaccia qui, casualmente l’immagine della diversa traiettoria di una pietra lanciata da un uomo e da una donna – prediligerebbero la verticalità dei movimenti sul posto, i secondi l’orizzontalità di “spiazzamenti” e volteggi. Su ballu tondu sarebbe assegnabile alla prima categoria, ma non è sempre facile dire di una danza se è introversa o estroversa: i danzatori maori ballano sul posto dimenandosi ma, se c’è spazio sufficiente, si spostano tantissimo da un punto all’altro. In molti casi a fare la differenza, con l’educazione, è la trasmissione di atti e comportamenti operata dal milieu sociale e culturale. Qui però, per quei corpi in movimento, non possiamo evitare di sentirci solleticati dal senso di “implosione” vs “esplosione” di una mano a pugno con il pollice fuori (perlopiù maschile) affrontata a una con il pollice dentro (perlopiù femminile). Non sarebbe molto più d’un vago avvertimento di naturalità originaria (l’imbarazzo delle donne nei confronti di un fallo che i maschi, invece, sono ben contenti di poter esibire), ma di una tale forza, per rappresentatività e consistenza, da investirti come un fiume in piena. Sono le acque travolgenti degli oggetti, coi simboli sessuali di cui il genere umano li riveste, che la natura ti mette tutti i santi giorni sotto il naso.