Un caso isolato? Anche il tracollo della Carige? Lo avevano detto per il Monte dei Paschi di Siena, poi per la Popolare di Vicenza e la Veneto Banca, erano casi isolati anche le quattro banche popolari del centro Italia, e così via. Di eccezione in eccezione, i casi sono diventati un domino. Le banche locali, per lo più popolari ed ex casse di risparmio, hanno cominciato a cadere l’una sull’altra. E la risposta è stata sempre la stessa: far pagare agli altri i propri fallimenti. Gli altri sono i contribuenti come per il Montepaschi e in parte minore le stesse banche venete, gli azionisti delle banche salvatrici (non tutte le operazioni sono buoni affari), i clienti che contribuiscono con i loro depositi al fondo interbancario. E così via, di salvataggio in salvataggio.
Tutto questo nell’illusione di puntellare il modello italiano basato su due pilastri: 1) la pubblicizzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti: 2) il nanismo sistemico delle banche locali, piccole, ma troppo importanti per fallire, visto che su di loro si basa l’edificio del consenso clientelar-elettorale.
La fragilità del sistema bancario nazionale si inserisce in uno scenario difficile, potenzialmente critico, che coinvolge nel loro insieme le banche europee. Nel corso di quest’anno hanno perso in borsa mediamente il 34% rispetto al 23% di quelle americane e il 2019 non s’annuncia migliore, al contrario, scrive il Wall Street Journal, “tassi di interesse molto bassi e incertezze politiche si estenderanno ancora nei prossimi mesi. Le banche europee hanno da perdere più delle loro pari”.
L’unica speranza viene da un aumento del costo del denaro, tuttavia la Bce non è intenzionata, per ora, a cambiare strategia: l’inflazione è troppo bassa e nel frattempo la crescita sta rallentando in modo preoccupante. Ma le nubi non vengono solo dalla macroeconomia: rispetto a quelle americane le banche europee hanno un business model che le espone di più ai venti della congiuntura, sono meno produttive, offrono pochi servizi ad alto valore aggiunto, sono piene di crediti putrescenti o, come nel caso della Deutsche Bank, di derivati ad alto rischio.
La fragilità del sistema bancario nazionale si inserisce in uno scenario difficile, che coinvolge nel loro insieme le banche europee. Nel corso di quest’anno hanno perso in borsa mediamente il 34% rispetto al 23% di quelle americane e il 2019 non s’annuncia migliore
Politica monetaria, inefficienza, non performing loans, arretratezza tecnologica, incertezze politiche: per le banche italiane è una miscela esplosiva. Anche per le più grandi. Sul mercato continuano a diffondersi analisi secondo le quali Unicredit, l’unica banca sistemica nell’area euro, avrebbe bisogno di chiedere altro capitale nonostante abbia superato gli stress test della Bce. I 13 miliardi di euro raccolti l’anno scorso, non sarebbero sufficienti a compensare il fardello degli npl e la zavorra dei titoli di stato. A fine novembre Unicredit ha emesso un bond da 3 miliardi di dollari, per renderlo appetibile ha dovuto pagare il 4,2% in più rispetto al tasso swap a 5 anni, il che vuol dire una cedola del 7,83%. Ciononostante, ha trovato un solo acquirente: Pimco la società americana di servizi finanziari controllata dalla compagnia tedesca Allianz la quale detiene circa il 2% di Unicredit. Come dire: un aiutino da un parente.
“Anno nuovo vecchi problemi”, ha scritto il Financial Times. Peggio ancora, perché alle costanti storiche del modo italiano di fare banca si è aggiunta la retorica sull’ignaro investitore, obbligazionista o piccolo azionista che dir si voglia; in altre parole tutti quelli che negli anni di vacche grasse hanno approfittato delle opache gestioni intascando dividendi fasulli e adesso corrono a indossare anche loro i gilet gialli.
Il sindaco di Genova Marco Bucci (centro-destra) esprime perfettamente lo spirito dei tempi; quando è intervenuto il fondo interbancario di garanzia ha annunciato trionfante: “Abbiamo salvato Carige”; ora che tutto torna in discussione proclama: “La banca non fallirà”, evocando l’intervento del governo, cioè di chi ha pagato le tasse e non ha ricevuto il minimo beneficio dalla gestione truffaldina che ha portato Carige al collasso. E che cosa ne dice Beppe Grillo? Lui che pontifica su tutto non si è mai espresso sulla principale banca della sua città. A consultare l’archivio dell’Ansa non si trova una parola, tanto meno un vaffa, eppure non regnava l’onestà se è finito in galera nientepopodimeno che il plenipotenziario Giovanni Berneschi condannato per truffa a 8 anni e due mesi.
Come per Mps, anche in Carige clientele e relazioni sono state coltivate attraverso la Fondazione dove dentro c’era di tutto. E, proprio come a Siena, la fondazione ha pagato il prezzo del dissesto: ben 926 milioni di euro
Non si può giudicare quel che sta accadendo in questi giorni, il fallito aumento di capitale e l’azzeramento del valore di borsa, se non si fa un passo indietro ricordando perché siamo arrivati a questo punto, come la banca ha “fatto sistema” diventando il supporto di politici locali e nazionali di destra (gli onnipresenti Scajola) e di sinistra (Claudio Burlando), dei potentati economici, della curia e di ogni genovese che conta. Come per Mps, anche in Carige clientele e relazioni sono state coltivate attraverso la Fondazione dove dentro c’era di tutto. E, proprio come a Siena, la fondazione che possedeva quasi il 50%, ha pagato il prezzo del dissesto: ben 926 milioni di euro, con un patrimonio sprofondato da oltre un miliardo di euro ad appena una novantina di milioni.
La cornucopia si è trasformata in una fornace brucia-soldi anche per gli investitori privati. Vittorio Malcalza entra nel 2015 e sembra che cominci una nuova vita: da allora ad oggi l’industriale trasformatosi in finanziere spende 400 milioni, cambia tre amministratori in tre anni e adesso è alla resa dei conti anche con i nuovi vertici: Pietro Modiano e Fabio Innocenzi. Malacalza, che oggi possiede il 27,7% delle azioni, non ha aderito all’aumento di capitale (altri 400 milioni di euro) provocando le dimissioni di due consiglieri: Raffaele MIncione e Lucrezia Reichlin, vicepresidente, considerata molto vicina alla Bce.
Il pallino a questo punto sembra in mano proprio alla Banca centrale europea i cui emissari si sono incontrati con Mattia e Davide Malacalza, i figli di Vittorio. Il mancato aumento di capitale rimette in discussione anche il bond di 320 milioni sottoscritto dal sistema bancario, che potrebbe essere trasformato in azioni bilanciando così i Malacalza. La Bce ha sollecitato da tempo un matrimonio con un’azienda creditizia più solida, si era parlato della Ubi la quale, però, non ne vuol sapere, almeno nelle attuali condizioni. Il problema è sempre lo stesso: chi tappa i buchi del passato? Come evitare che il contagio si estenda e ancora una volta la banca cattiva distrugga quella buona? Siamo tornati, così, al punto di partenza. Carige, Montepaschi, Popolare Vicenza, Banca dell’Etruria, e quant’altro, si sono fatte male da sole; leghisti e pentastellati vogliono far credere il contrario, ma la lunga recessione ha fatto cadere ogni velo, poi l’euro, il bail-in, la riforma delle popolari e delle casse di risparmio hanno aperto il vaso di Pandora.