Pasticcio all'ingleseDisastro Brexit: la May è impotente, i suoi nemici pure (e l’Europa si è presa la sua rivincita)

Theresa May non è abbastanza forte per imporre l’accordo al Parlamento, i tories ribelli non sono abbastanza forti per mandarla a casa, così come i laburisti non possono imporre una marcia indietro. Il risultato? L’Europa sta a guardare, e si gode lo spettacolo

Costretto in un angolo, il Regno Unito si dimena in preda a convulsioni politiche che rendono impossibile predirne il futuro. La premier Theresa May è sopravvissuta alla mozione di sfiducia del suo partito del 12 dicembre con una maggioranza di 83 voti (è finita 200 a 117), dopo aver comunque annunciato l’intenzione di non guidare i Tories nelle elezioni del 2022. La Brexit negli ultimi 30 mesi ha spaccato e indebolito il partito conservatore, che l’ha causata e poi gestita, ma il dilemma uscito dal referendum del 2016 potrebbe creare problemi un domani anche a un eventuale esecutivo laburista. Londra è in una posizione fragile, figlia di numerose debolezze.

La prima è proprio quella di Theresa May, salvata da quella maggioranza del suo partito che ancora ne supporta la linea, e che tuttavia nella Camera dei Comuni è minoranza. La premier ha infatti dovuto rinunciare a far votare il suo accordo sulla Brexit l’11 dicembre, proprio perché consapevole che avrebbe perso con un “margine significativo”. Se in Parlamento non ci sono i numeri per votare quanto negoziato dalla May con l’Unione europea, e da quest’ultima considerato come il più generoso possibile, non è chiaro quale accordo potrebbe invece averli. E questa è la seconda debolezza: l’assenza di alternative sostanziali che abbiano un sufficiente consenso politico.

L’opposizione interna al partito conservatore ha appena dimostrato di non avere la forza per imporre la propria linea, che potenzialmente potrebbe condurre il Regno Unito a una Brexit senza accordo. Questo scenario è indigesto alla grande maggioranza dell’arco politico britannico, anche considerati gli scenari catastrofici prospettati dalla Bank of England, con un crollo del Pil a due cifre (-8% subito, -10,5% entro il 2024) e un boom di disoccupazione e inflazione.

La carenza di alternative preferibili è un problema che sembra avere anche l’opposizione laburista, con il leader Corbyn ancora incapace di scandire una posizione chiara a favore di un secondo referendum, desideroso più che altro di andare il prima possibile alle urne per poi prendere ancora non è chiaro quale direzione circa la Brexit. E il motivo non è difficile da intuire. Con un elettorato che appena due anni fa ha votato per circa la metà a favore dell’uscita del Regno Unito dalla Ue, mettere in discussione il verdetto democraticamente espresso dal popolo causerebbe quasi certamente un’emorragia di voti. Tenere il futuro oltre Manica avvolto nella nebbia è quindi una strategia elettorale necessaria per i laburisti, che possono così attirare tanto il voto di chi vuole un’uscita dalla Ue migliore di quella negoziata dalla May quanto di chi non vuole alcuna uscita.

Se in Parlamento non ci sono i numeri per votare quanto negoziato dalla May con l’Unione europea, e da quest’ultima considerato come il più generoso possibile, non è chiaro quale accordo potrebbe invece averli. E questa è la seconda debolezza: l’assenza di alternative sostanziali

Veniamo così alla terza, e maggiore, debolezza di Londra: per quanto importante, un singolo Paese si trova in posizione di debolezza se negozia contro altri 27. Così come Theresa May è andata a sbattere contro una inedita solidità dell’Unione europea, qualsiasi altro governo dovrebbe tenere conto dei rapporti di forza. Questo vale soprattutto per gli oppositori interni della premier, i brexiters più convinti, che rischierebbero di causare un’uscita senza accordo se provassero a forzare la mano a Bruxelles, dannosa per tutti ma infinitamente più dannosa per Londra. Oltre ai danni economici, l’Unione ha finora sempre considerato nel calcolo costi/benefici della gestione della Brexit anche gli eventuali danni politici. Permettere ai falchi dei Tories di ricattare l’intera Ue con la paura del contagio di un’eventuale crisi inglese creerebbe un precedente, tanto più dannoso in un periodo storico in cui le spinte centrifughe all’interno dell’Europa sembrano rafforzarsi. Più che da un improbabile risveglio degli ideali europei, la solidità dell’Unione dipende in questo momento soprattutto dalla necessità. Per questo è improbabile che cambi nel prossimo futuro.

I laburisti potrebbero quindi forse sperare di trovare un accordo migliore accettando un compromesso meno ambizioso di quello promesso (e mai realizzato) dai brexiters conservatori. Ma la sensazione è che una volta salita al potere, anche l’attuale opposizione soffrirebbe le contraddizioni intrinseche alla Brexit. Se è vero che nell’elettorato di sinistra c’è una corposa minoranza che ha votato, e che rivoterebbe, per l’uscita del Regno Unito dalla Ue, lo fa fatto in buona parte perché pensa sia importante che Londra riprenda il controllo esclusivo di alcune fondamentali materie, oggi condivise a livello comunitario. Non deluderlo mediando un accordo che preservi il mercato comune, e quindi la libera circolazione delle persone che per la Ue ne è parte integrante, sembra un’impresa complicata. Non preservare il mercato comune d’altro rischia di causare un grave danno economico al Paese, e i laburisti si troverebbero in una posizione non dissimile da quella in cui si trova ora la May. Schiacciata tra la difficoltà di scontentare un elettorato trasversale ai partiti, che vuole la Brexit, e quella di strappare all’Unione europea un accordo che tenga insieme consenso e benessere, la classe politica inglese per ora sembra navigare a vista.

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