Mafie vs civiltàEnzo Ciconte: la Calabria è un buco nero, e nemmeno la magistratura la salverà

Fu il primo a scrivere di ’ndrangheta negli anni ’90. Il docente ed ex deputato intervistato parla della cattiva fama della sua Calabria e dice: ”Serve una nuova classe dirigente, una battaglia”. E fa i complimenti a Mimmo Lucano per la sua Riace.

L’ultimo tsunami che ha colpito la Calabria si chiama “Lande desolate” e non è roba da poco, visto che di mezzo ci è andato anche il presidente della Regione, Mario Oliverio, costretto all’obbligo di dimora perché accusato dal procuratore della Dda di Catanzaro Nicola Gratteri e dai suoi magistrati di aver truccato gli appalti a favore di un imprenditore considerato braccio destro di un potente clan del cosentino, i Muto di Cetraro. Una notizia che ha investito l’opinione pubblica, consegnando alla Calabria l’ennesimo scandalo con cui alimentare la propria cattiva fama. Una storia non nuova, se è vero, com’è vero, che da anni la pubblica amministrazione calabrese finisce nel mirino della magistratura. A volte a torto, molto spesso a ragione. Ma la Calabria non è soltanto questo, dice Enzo Ciconte, scrittore, docente ed ex deputato della Repubblica. Uno che di ‘ndrangheta e società calabrese ne capisce molto, tanto da essere stato il primo a scriverne, negli anni ‘90. E allora com’è questa Calabria finita in un buco nero senza sfumature? «È un paese di gente difficile», dice Ciconte citando Corrado Alvaro, «ma questa terra ha due facce e siamo abituati solo a quella brutta». E a chi dice che l’unica salvezza sono i magistrati, Ciconte dice di no: «loro intervengono a danno già fatto, a noi serve una nuova classe dirigente».

La Calabria sembra in un buco nero informativo: quando se ne parla è solo per fatti tragici e torna a sparire nel giro di qualche ora. Perché?
La Calabria ha sempre avuto un’immagine pessima all’esterno, ma è una cosa che accade da sempre. I motivi sono tanti. Mi ha colpito una riflessione di Corrado Alvaro del 1930, quando disse: «sembra difficile spiegare cosa sia la Calabria. La parola Calabria dice alla maggioranza cose assai vaghe, paese e gente difficile». In quella affermazione c’era già allora la difficoltà di spiegare cosa sia questa terra, perché era stata raccontata come popolata da gente rozza, da ribelli, da briganti. Se ne diceva le cose peggiori che si potessero raccontare. Ricordo la stagione dei sequestri di persona: i racconti che ne venivano fatte erano terrificanti. Ed il racconto della regione è stato sempre questo, che veniva confermato dalle nefandezze della ‘ndrangheta. Rovesciarlo è molto complicato, perché questa terra non ha mai avuto un grandissimo peso politico.

Quindi è un problema storico?
Si perpetra da sempre. C’è stata un po’ di attenzione mediatica quando questa regione si è ribellata in modo diretto, in tutti gli altri momenti è sparita dalla scena. L’unico uomo politico che ha avuto un peso è stato Giacomo Mancini, ma escluso lui, la rappresentanza politica di questa terra non ha mai avuto peso per raccontare la Calabria in modo diverso. Un altro momento importante è stato durante la Repubblica rossa di Caulonia, ma fu comunque un periodo storico particolare.

Molti giovani hanno lasciato la Calabria. Non si sono ripiegati su loro stessi, non si sono pianti addosso, hanno preso la valigia e hanno rischiato fuori

È tutta vera questa rappresentazione?
Secondo me no. Non voglio negare questi fatti: la ‘ndrangheta esiste ed è vero il fatto che la classe politica degli ultimi 30-40 anni non ha avuto forza, capacità o lungimiranza per affrontare i problemi veri, pensando convenisse essere subalterni ai potenti di turno. È mancata una classe dirigente che guardasse al futuro anziché al presente e al proprio ombelico. Ma dentro questa descrizione non è vero che è rimasta immobile.

In che modo?
Il primo motivo è che molti giovani hanno lasciato la Calabria. Questo vuol dire che non si sono ripiegati su loro stessi, non si sono pianti addosso, hanno preso la valigia e hanno rischiato fuori. Hanno cercato di affermarsi. Se io e lei ci mettessimo a fare un libro raccontando la storia di quei calabresi che hanno fatto fortuna e successo al nord o all’estero faremo un volume di 400 pagine, perché sono davvero molti. E se tutti i calabresi tornassero in Calabria non verrebbero accolti con le braccia aperte, perché finirebbero per schiacciare tutti gli altri. Non ce la farebbero nemmeno a contenerli tutti. Moltissimi di questi calabresi, per avere successo, hanno dovuto trovare il coraggio di emigrare.

E poi?
Il secondo motivo voglio spiegarlo con un esempio: quando io andavo a Torino, portavo il salame, il peperoncino, insomma, le classiche specialità calabresi. Tutti quanti riempivamo le valigie di quegli alimenti e li consumavamo subito, affinché non si rovinassero. Oggi trovi tutto in tutti i supermercati d’Italia. Penso al tonno Callipo, alla cipolla rossa di Tropea… questo significa che dentro la Calabria è cresciuta un’industria, almeno quella dell’alimentazione, che è concorrenziale rispetto ad altre. Ci sono eccellenze di cui non si parla. Non è vero che è una landa deserta, abitata solo da criminali e nullafacenti. Non c’è niente di più sbagliato come pensare ai calabresi come fannulloni o persone che non hanno voglia di fare niente. Lavorare in Calabria, fare agricoltura, è quanto di più difficile ci sia, perché il terreno è molto particolare. Questa terra ha due facce, ma se ne racconta solo una, siamo abituati solo a quella brutta.

Quindi è un problema di narrazione?
C’è il problema di come viene raccontata. Ma alcune cose si riesce ad affermarle, sul piano generale. Ci sono alcuni scrittori, conosciuti anche fuori dai confini calabresi, quindi c’è una certa letteratura che comincia ad affermarsi, anche a livello nazionale. La cosa che voglio dire è questa: c’è un’immagine della Calabria negativa, che non voglio negare, ma questa immagine non viene raccontata aggiungendo anche gli aspetti positivi e secondo me questo è un errore.

Qualcuno ci ha provato a fare il contrario?
Io sono stato il primo autore a scrivere un libro di storia sulla ‘ndrangheta. Ma ho raccontato anche gli aspetti positivi, con un’apertura al futuro, parlando della gente che ha combattuto la malavita. In “Politici e malandrini” ho raccontato il rapporto tra politica e ‘ndrangheta, che inizia nell’800. Quando ho finito – era il 2013 – ho pensato: caspita, siamo messi proprio male. Mi ero sconfortato. E allora ho voluto scrivere la seconda parte, dedicata ai “signor no”. Sono le storie di chi si è ribellato alla ‘ndrangheta. Come Peppino Lavorato, ex sindaco di Rosarno. Non è tutto perduto, c’è anche chi la malavita l’ha contrastata, chi è andato contro le sue imposizioni. E bisogna raccontarlo. È sbagliato dire che non esiste, ma non è nemmeno l’unico problema. Ci sono problemi di prospettiva, i giovani, il futuro, la capacità di immaginarsi diversa.

E come si risolvono?
Con classi dirigenti capaci. Non parlo solo di politici, parlo anche di imprenditori, professori, commercianti, intellettuali, scrittori. È necessario mettersi insieme per immaginare un futuro per la Calabria. Ma nessuno si prende la briga di affrontare un tema complicato e difficile come questo, perché significa di fare i conti con la storia, affrontare i temi veri, non quelli fasulli.

Per molti l’unica forza in grado di salvare la Calabria è la magistratura. Cosa ne pensa?
Non ci si può affidare solo alla magistratura. Alla sua forza salvifica non ho mai creduto, perché interviene a danno già fatto. Non per risolvere il problema, ma per sanzionarlo. E lo fa dall’800, mica da oggi. Si tratta, comunque, pur sempre di uomini: c’è chi non aveva voglia di fare nulla, chi non era capace, anche chi è sceso a patti. C’è stata un’enormità di operazioni, ci sono centinaia di mafiosi in carcere, ma il problema rimane. Altrimenti la magistratura sarebbe al governo non della regione, ma del Paese. Se ci si affida alla magistratura si commette un errore clamoroso perché ha altri compiti: non governare la Calabria, ma sanzionare i comportamenti illegali. E invece bisogna evitare che il danno si faccia, quindi serve la politica.

Come, ad esempio?
Immagini un paese con un prato dove i bambini giocano e che il sindaco decida che lì si deve costruire un palazzo, perché ha preso una mazzetta da qualcuno. Ci sono due strade: si può aspettare che la magistratura intervenga, ma per farlo il danno deve essere già stato fatto, lo scempio deve già esserci e quindi si risolve poco. L’altra strada è impedire che quel sindaco faccia quella variante, quindi mobilitare la gente. Serve una battaglia.

In Calabria c’è stato un sindaco che ha immaginato qualcosa di diverso, Domenico Lucano. La magistratura, però, ha bocciato quel modello. Al di là dell’inchiesta, è questo il tipo di lungimiranza a cui si riferiva?
Quello di Lucano è stato uno straordinario progetto di rivitalizzazione di un borgo abbandonato della Calabria, che ha messo in moto un processo di integrazione tra stranieri e riacesi. Ecco cosa significa avere una visione del futuro. Il limite è che sia rimasto confinato lì, a Riace, che nessun sindaco abbia avuto la stessa forza per fare la stessa cosa. Cambiando il governo, cambiando orientamento politico, è cambiato tutto. Lucano e il suo progetto rappresentavano uno schiaffo al ministro dell’Interno, era come mettergli le dita negli occhi. Così si è messo in moto un meccanismo che ha determinato tutto quanto gli è capitato. Può darsi che abbia fatto qualche sciocchezza a livello amministrativo, ma la criminalizzazione di Riace è una vergogna assoluta ed è opera anche di chi è al governo. Quella esperienza lì non andava interrotta, se c’era qualcosa da correggere lo si doveva fare, ma non com’è stato fatto.

Quello di Lucano è stato uno straordinario progetto di rivitalizzazione di un borgo abbandonato. Ecco cosa significa avere una visione del futuro

Che fine hanno fatto alle ultime elezioni i feudi di voto legati a questo o a quell’esponente politico?
Normalmente la ‘ndrangheta vota per chi si pensa possa vincere. Tranne che in alcune realtà, fa questa scelta, non punta su chi perde. A volte, però, nei comuni, li dà a più concorrenti, in modo da poter controllare sia chi vince sia chi perde. È abbastanza semplice individuare dove vanno i voti.

E cos’è cambiato rispetto al passato?
Una volta c’erano partiti: il Partito Comunista aveva questa capacità e questa caratteristica di respingere i voti della ‘ndrangheta, lo ha sempre fatto. L’unica eccezione fu all’inizio, nella zona jonica reggina, dove c’era stata un’enclave che votava comunista, ma la cosa era ridotta a pochi Comuni. Poi la situazione è cambiata e la ‘ndrangheta ha visto nel Partito Comunista un nemico importante. Fino a quando non è sparito e i partiti non hanno avuto una grande capacità di reazione. Si fanno grandi discorsi a parole, ma quando si fanno le liste si preferisce inserire anche i parenti di queste persone, che possono portare voti. Si pensa possa essere un vantaggio, ma non è così, perché se si avesse il coraggio di rifiutare i voti della ‘ndrangheta non è detto che si perderebbe.

È capitato?
Io faccio sempre l’esempio di Lamezia Terme. Quando Gianni Speranza si candidò a sindaco fece un discorso molto netto. Disse: io i voti della ‘ndrangheta non li voglio, voglio i voti di tutti tranne i loro. Si pensava che perdesse, che fosse un discorso folle, e invece vinse. Per due volte. Non c’è scritto da nessuna parte che rifiutare i voti della ‘ndrangheta significhi perdere, anzi: in questo modo recuperi i voti di chi non va a votare. La mia opinione è che si sopravvaluti la forza elettorale della ‘ndrangheta, in generale. Poi è chiaro che in alcuni Comuni molto piccoli, dove i clan hanno una radice antica, sono più forti, ma in generale non riescono a spostare moltissimi voti.

Come funziona adesso il meccanismo del voto di scambio, ora che rimane poco da scambiare in Calabria?
Non sono d’accordo. In Calabria c’è ancora molto da scambiare, perché i soldi arrivano e li gestiscono i Comuni e la Regione. Quindi è lì che è concentrata l’attenzione delle ‘ndrine. Più che sul Parlamento, che dal punto di vista dell’erogazione dei fondi conta poco, è sulle Regioni e sui Comuni che gli ‘ndranghetisti troveranno il modo per scambiare, l’accordo e la possibilità di continuare a fare ciò che hanno sempre fatto.

In Calabria c’è uno scioglimento per mafia quasi ogni mese. Serve?
Bisogna cambiare la legge. Perché così com’è stata fatta nel 1991 non funziona più. Non è possibile sciogliere Consigli comunali in questo modo, perché si rischia di avere un effetto San Luca. In questo paese non si va a votare per protesta. Giusto o sbagliato che sia, bisogna spiegare quel che succede: nessuno si candida sapendo che dopo sei mesi verrà ribaltato tutto per via di una parentela. Questi scioglimenti vanno rivisti, nella modalità in cui vengono decisi, sulla necessità di farlo, in alcuni casi. Ci sono alcune buone proposte fatte dall’ultima commissione antimafia, come la possibilità di accompagnare l’amministrazione per evitarne lo scioglimento, ma anche per evitare che vengano commesse delle illegalità. Anche perché i funzionari fanno un altro mestiere, fanno i burocrati e più di quello non sanno fare. Non è colpa loro, fanno il mestiere per cui sono stati abilitati, che è diverso da quello dell’amministratore, che è uno dei mestieri più difficili che ci sia oggi.

I clan hanno puntato sul nord, ma continuano a cercare il controllo della Calabria. Perché?
Per noi calabresi l’attaccamento a dove si è nati non si può rescindere facilmente. Gli ‘ndranghetisti hanno questa capacità e questa volontà di dimostrare ai loro paesani che loro sono arrivati e gli altri sono rimasti con le pezze al culo. Poi c’è una tendenza, nelle ‘ndrine più ricche, di riciclarsi e cercare di emergere nella legalità. Ora, questa operazione la si può fare al nord e all’estero, in Calabria è difficile farla. Si può anche tentare, ma ci si conosce tutti, anche nelle realtà più grandi, sempre minuscole rispetto ad un quartiere di Roma o Milano. Ecco perché nelle grandi città loro acquistano bar, alberghi e ristoranti nei centri storici. Perché è il prestigio che loro cercano. Lo cercano nel paese, in giro per l’Italia e per il mondo e cercano, con il prestigio, anche di fare soldi e passare come persone pulite che possono stare al pari degli altri nella legalità.

Questo governo in tema di criminalità organizzata cosa fa?
Ha promesso che nel giro di qualche mese, al massimo anno, sconfiggerà mafia, ‘ndrangheta e camorra, quindi siamo a posto! Cosa si vuole di più? Perderà lei, perché non potrà più fare la giornalista facendo queste domande, perderò io, perché non potrò più scrivere libri sulla ‘ndrangheta. Qualcun altro disse che la mafia sarebbe finita nel 2000, siamo nel 2018 e ancora purtroppo abbiamo a che fare con la criminalità organizzata. Quindi questi annunci li reputo un male per l’Italia. Finora non hanno fatto assolutamente nulla, tranne propaganda e pubblicità. Di provvedimenti reali, seri, nel concreto, non si è visto nulla.

Ne faranno?
Ah, non ho la sfera di cristallo. Questo bisognerebbe chiederlo a Salvini.

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