Circolava nei giorni scorsi sui social un’esilarante tweet che vedeva dei “terrapiattisti” congratularsi del loro numero in crescita “around the globe”. Solo che, forse, non era una battuta, ma un pezzo di umorismo involontario. Oppure una fake news costruita per dileggiare incompetenti diffusori di “verità” che “la scienza”, “serva del potere”, ci nasconderebbe. Poco importa. Se non si capisce subito non ci interessa, verrebbe da dire, perché è probabile che in gioco non ci sia affatto la verità.
Nel settecento gli illuministi più radicali si prendevano gioco dei sacerdoti, trattandoli da ciarlatani. Ora personaggi più fulminati che illuminati cercano di riservare lo stesso trattamento agli scienziati. Più seriamente e preoccupantemente, negli anni trenta in Germania ”Politische Wissenschaft” non significava “political science” ma la scienza in quanto “utile al popolo” secondo il giudizio del popolo. Altrimenti il giudizio di condanna era chiaro: incomprensibile “astrazione” usata a danno del popolo, e al servizio di poteri occulti e indicibili, possibilmente “cosmopoliti”. Era uno dei componenti della “macedonia ideologica” del partito che prese il potere nel 1933. Inquietante analogia? Sì. Analogia, tuttavia, e non identità. Se fosse un’identità, sarebbe forse meglio, perché avremmo tutti i mezzi morali per respingerla. Ma nell’analogia c’è sempre qualcosa di nuovo, che costringe tutti a riprendere le misure.
Certo che l’imbarbarimento attuale interroga. Certo che va osteggiato e combattuto. Ma dovrebbe innanzitutto farci chiedere da dove viene, e se si è fatto tutto ciò che si poteva perché non venisse. E dovrebbe spingere gli scienziati migliori di tutte le discipline a venire ancora più in chiaro di ciò che fanno, lavorando sulla fondatezza dei loro metodi e dei loro “concetti fondamentali”. È ciò che qui è là sta iniziando ad accadere. Persino in economia, scienza in cui la componente assiomatica, per non dire dogmatica, è assai forte, e persino nel mainstream, è chiaramente in corso una riflessione volta a rivedere concetti, teorie e modelli finora dati per assodati. Con la libertà che deve contraddistinguere il lavoro di “avanguardia”, ossia di innovazione e rinnovamento dei “paradigmi”.
Nel frattempo però c’è un lavoro di retroguardia, pedagogico, a cui non ha senso che si sottragga nessuno, e che consiste nel non far passare, dalle crepe aperte nell’edificio di una scienza sottoposta a riflessione critica, i sotterfugi di chi non ha mai passato un solo istante della sua vita a cercare di dire la verità
Nel frattempo però c’è un lavoro di retroguardia, pedagogico, a cui non ha senso che si sottragga nessuno, e che consiste nel non far passare, dalle crepe aperte nell’edificio di una scienza sottoposta a riflessione critica, i sotterfugi di chi non ha mai passato un solo istante della sua vita a cercare di dire la verità. E a cui non par vero di poter profittare della debolezza altrui per camuffare la sua debilità nel “coraggio” di denunciare le verità nascoste.
Diceva, riassumendo preventivamente per noi tutti, Immanuel Kant, proprio a proposito di sacerdoti: “un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità religiosa secondo la confessione della Chiesa da cui dipende, perché egli è stato assunto a questa condizione: ma come studioso egli ha piena libertà ed anche il compito di comunicare al pubblico tutti i pensieri, che un esame severo e coscienzioso gli ha suggerito circa i difetti di tale confessione e di fare le sue proposte di riforma della religione e della Chiesa”. La cosa vale ancor di più per gli scienziati. Lunga premessa, che forse avrà dissuaso i lettori meno appassionati dal continuare la lettura, ma doverosa per inquadrare nella nostra epoca preoccupante il fatto di cui voglio parlare e non certo per primo: il caso cioè del servizio passato sulla RAI (il programma si chiama, autoreferenzialmente mi vien da supporre, “Povera Patria”) sul “problema” del “signoraggio”, con la firma di Alessandro Giuli.
Il signoraggio è il guadagno netto per interessi che una banca centrale ottiene per il fatto di emettere moneta (una sua passività, su cui vi è un tasso d’interesse nullo) acquistando titoli di debito pubblico
Altri colleghi economisti hanno già ampiamente mostrato l’inconsistenza delle tesi sostenute dagli autori del programma, e soprattutto l’insussistenza del problema posto nei loro termini. E quindi ancor di più, delle conseguenze che dal falso problema si vogliono trarre. Quindi riassumo. Le “tesi” espresse nel servizio, corredato peraltro di un’orrenda musichetta trionfale, del tutto inadeguata alla “serietà” del “problema”, sono:
1) Il signoraggio è la differenza tra il costo di “stampare la moneta” e il ricavo che deriverebbe da tale attività. L’esempio dato è “illuminante” (quasi… fulminante!): se il costo di stampare moneta è 1 e in controvalore lo stato prende 100 euro di valore il signoraggio è 99.
2) il signoraggio così inteso è stato sottratto allo Stato (“cioè a noi”, ovviamente, senza nessuna mediazione e con un indebito riferimento alla Costituzione, che invece parla di esercizio della sovranità popolare “nelle forme e nei limiti” da essa stessa stabiliti), prima con il “divorzio” fra banca centrale e Tesoro, poi con l’ingresso nell’euro.
3) ciò ha portato a un’esplosione del debito per via dell’impossibilità di monetizzare i deficit: beninteso, “stampando moneta” (basterebbe questa espressione per capire che chi la utilizza non capisce il fenomeno di cui parla, giacché la gran parte della moneta attualmente creata non è affatto “stampata”).
In realtà, come hanno ben messo in evidenza colleghi che si sono mossi più tempestivamente di me (per esempio Cottarelli, Lippi e Boldrin, e ancora più tempestivamente Nicolò Cavalli, su questo giornale nel 2013), il signoraggio è il profitto di una banca centrale, che essa gira integralmente ai governi (nell’eurozona la BCE redistribuisce ai governi nazionali attraverso le BCN secondo le loro quote). In sostanza, è il guadagno netto per interessi che una banca centrale ottiene per il fatto di emettere moneta (una sua passività, su cui vi è un tasso d’interesse nullo) acquistando titoli di debito pubblico (che invece pagano generalmente un interesse positivo e vanno nel suo attivo di bilancio). Si tratta di cifre molto piccole rispetto alla mole di spesa pubblica di uno stato e, a ben vedere, il signoraggio è tendenzialmente aumentato con l’euro (si veda l’articolo di Lippi). Il che è sufficiente a confutare 1), 2), 3).
Da un punto di vista sistemico inoltre, come mi era capitato di scrivere nel 2009, in Fine della finanza, lungi da essere un furto perpetrato da pochi (molto) cattivi a danno di noi tutti (molto molto buoni), il signoraggio è semplicemente il costo che si paga perché il sistema funzioni: “il signoraggio non toglie a nessuno niente che realmente gli appartenga […] esso continua a essere il guadagno di qualcuno a cui non corrisponde la perdita di nessuno”. Le banche centrali possono avere anche una struttura privatistica ma hanno uno statuto che le vincola all’esercizio dei loro poteri in vista di fini pubblici. In quest’ottica possono (devono) fare “whatever it takes”, ma per nulla affatto “whatever the hell they want”.
Diceva Keynes già nel 1923, al pari della deflazione, anche l’inflazione è un male. E se per lui talvolta una moderata inflazione può essere un “male necessario”, nella misura in cui allevia il peso di debiti divenuti insostenibili, essa non è affatto la soluzione ottimale,
È stato poi fatto osservare che, quand’anche ridivenisse possibile, “stampare moneta”, dagli assegnati della rivoluzione francese fino ai giorni nostri, non è affatto di per sé una soluzione miracolosa, perché un abuso dello strumento della creazione monetaria, per esempio attraverso la monetizzazione dei deficit, può comportare dinamiche inflattive incontrollabili. In un tempo di stagnazione come il nostro, l’inflazione può sembrare il minimo dei problemi, così come in periodi di alta inflazione la stabilità a tutti i costi appare sempre buona. L’erba del vicino è sempre più verde. In realtà, diceva Keynes già nel 1923, al pari della deflazione, anche l’inflazione è un male. E se per lui talvolta una moderata inflazione può essere un “male necessario”, nella misura in cui allevia il peso di debiti divenuti insostenibili, essa non è affatto la soluzione ottimale, ma piuttosto la prova che nelle questioni monetarie dobbiamo imparare a diventare più scientifici. Più scientifici, appunto, non più cialtroni. Per parte loro gli economisti devono però darsi da fare, giacché la crisi ha messo in evidenza più di una pecca dell’impianto teorico e modellistico. E non c’è tempo da perdere, perché i cialtroni corrono sempre più veloci.
Nel 2016 Jordi Gali, eminente macroeconomista che insegna a Barcellona, ha pubblicato uno studio dal titolo assai eloquente: The Effects of a Money-Financed Fiscal Stimulus (“Gli effetti di uno stimolo fiscale finanziato mediante monetizzazione”). Nel 2015 Adair Turner dell’Institute for New Economic Thinking aveva scritto The Case for Monetary Finance – An Essentially Political Issue (“L’ipotesi di una finanza monetaria: una questione essenzialmente politica”). Ma, appunto, si tratta di studi, in cui i problemi di metodo e la cautela nelle ipotesi sono di rigore, e che non ci risulta gli autori del servizio di povera patria abbiano letto e, se letto, compreso.
Ma che importa capire come si arriva alla “verità” se ci si è già arrivati? Importa eccome. Soprattutto quando si è i giornalisti di un servizio pubblico, e non fanatici e inflazionistici stampatori di samizdat. Per criticare una scienza bisogna averla capita. Tutta. Altrimenti è meglio, come diceva Platone a quelli che non capivano la matematica, “darsi all’ippica”. Sempre che lo si sappia fare.