I motivi per cui l’Africa, in particolare quella Subsahariana (Il Nordafrica è un’altra storia) è ancora l’area in maggiore sottosviluppo al mondo sono tantissimi. E molti, forse la gran parte, non sono neanche economici.
Secondo qualcuno, però, tra questi motivi c’è la moneta, che in alcuni Paesi è il famigerato franco Cfa, la divisa unica utilizzata soprattutto nei Paesi ex colonie francesi. Con qualche variazione: ad esempio la Guinea, che fu la prima ad avere l’indipendenza da Parigi, non aderì all’unione monetaria. Mentre è stata adottata dalla Guinea Equatoriale, ex territorio spagnolo, e dalla Guinea Bissau, ex colonia portoghese.
In realtà, di franchi CFA ce ne sono due: quello dell’Africa Occidentale, usato in Senegal, Mali, Niger, Togo, Benin, Costa d’Avorio, Burkina Faso e Guinea Bissau, e quello dell’Africa Centrale, che è moneta ufficiale nel Congo-Brazzaville, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Gabon e Guinea Equatoriale. In entrambi i casi l’obiettivo era ed è chiaro, evitare l’instabilità finanziaria e l’inflazione che hanno spesso colpito i Paesi in via di sviluppo (si veda alla voce Zimbabwe) e allo stesso tempo facilitare gli scambi tra i Paesi vicini.
In fondo, si tratta degli stessi obiettivi dell’area Euro. E così anche le obiezioni che vi vengono poste sono un po’ le stesse. Una stessa moneta, piuttosto stabile anche perché legata in modo fisso prima al franco francese e poi all’euro, assieme ai vantaggi, purtroppo, pone anche gli svantaggi di una eccessiva rigidità: per esempio, questi Paesi non possono svalutare per guadagnare competitività, non possono compensare il crollo dei prezzi delle materie prime di cui sono esportatori, e sono in balìa delle oscillazioni dell’euro rispetto ad altre monete mondiali. A maggior ragione visto che l’Europa è sempre meno destinazione dei commerci dell’area a vantaggio dell’Asia o del colosso nigeriano.
Anche se molti italiani avranno scoperto solo in questi giorni dell’esistenza del franco Cfa, il dibattito è vivace da decenni. Conviene rischiare l’instabilità, le feroci svalutazioni e l’inflazione galoppante ma essere sovrani e flessibili, o rimanere nella prudente situazione attuale? Oppure, soluzione a metà, avere una moneta sì unica, ma staccata dall’euro?
A dire il vero, dalle statistiche economiche emerge qualcosa che ci ricorda quello che sta accadendo in Europa, ovvero che i guai dei Paesi sono legati solo in minima parte alla moneta che utilizzano. Se prendiamo i dati del 2018, la variazione nella crescita del Pil è molto ampia: secondo il FMI si va dal +7,4% della Costa d’Avorio alla recessione nella piccola Guinea Equatoriale.
Poiché l’Africa ha una crescita demografica importante, vale la pena di guardare anche all’aumento del Pil pro-capite, che vede in testa di nuovo la Costa d’Avorio, seguita a ruota dal Burkina Faso e dal Senegal, mentre in Congo, Ciad, Gabon e Camerun c’è stagnazione, o comunque una crescita limitata.
Un po’ come succede nell’area euro, i divari sono ancora maggiori se guardiamo al debito pubblico e al valore dell’export rispetto al Pil.
Il debito del Congo Brazzaville supera il 100% del Pil, mentre quello di Mali e Camerun è sotto il 40%. Per Gabon e Senegal, poi, le esportazioni hanno una importanza più che doppia rispetto a quella di Paesi ugualmente piccoli come Niger o Repubblica Centrafricana.
Non sembra quindi esserci un destino comune, ma anche volendo guardare ad una media tra questi Paesi non sembra vi sia uno svantaggio economico evidente rispetto al resto del Continente, anzi.
Sia considerando la crescita del Pil reale tout court che quella del Pil pro-capite, i Paesi che hanno adottato il franco Cfa se la sono cavata meglio dell’Africa Subsahariana in generale nel 2018, +4,4% contro +3,1% nel primo caso e + 1,9% contro -0,7% nel secondo.
E se non calcoliamo i due giganti economici regionali, Nigeria e Sud Africa, che negli ultimi anni hanno sofferto della stagnazione, sono rimasti nella media.
Anche dal punto di vista del debito e dell’export le differenze tra i Paesi dell’unione monetaria sono ridotte.
A livello di trend, poi, la crescita dei Paesi del franco Cfa pare avere avuto un miglioramento nel tempo. Dal 2012 in poi, dopo un decennio di ritardi è stata agganciata e poi superata la media degli altri Paesi africani.
Questo soprattutto per merito di due dei quattro Paesi più importanti dell’unione monetaria, Costa d’Avorio e Senegal.
Soffrono di più invece i Paesi membri del franco Cfa dell’Africa Centrale. Si tratta quindi, come in tutto il Continente, di una situazione a macchia di leopardo. Nonostante la supposta rigidità del franco Cfa, il Senegal e la Costa d’Avorio sono tra i 10 Paesi più promettenti secondo l’Africa Investment Index di Quantum Global.
Questo grazie, nel primo caso, alle riforme politiche, che consentono l’alternanza democratica al potere, e a quelle economiche che puntano allo sviluppo dell’industria di trasformazione, dopo decenni di monocoltura delle arachidi. Tant’è che gli investitori cinesi, turchi e marocchini, in sostituzione dei soliti francesi, si sono già fatti vedere. Ad attrarre i capitali è il mix di globalizzazione e democrazia, pure se a poche centinaia di chilometri da Dakar si trovano le porzioni di Sahara percorse dagli islamisti.
In Costa d’Avorio vi sono elementi simili: una crescita del settore privato, riforme fiscali e finanziarie e investimenti in tecnologia ed agricoltura, uniti a una svolta politica di pacificazione dopo la crisi e la guerra civile del 2011. Merito anche di alcuni pozzi offshore. D’altra parte, secondo la stessa classifica, tra i 10 Paesi peggiori per investire ci sono anche quelli del franco Cfa. Sono la Repubblica Centrafricana e la Guinea Equatoriale.
Il punto è che la politica conta ancora molto da queste parti: una dittatura che congela il Paese per trent’anni, come in Camerun, o una guerra civile che scoppia hanno molto più peso della moneta adottata. Così come ce l’hanno le riforme che i governi, timorosi di non essere riconfermati in un sistema democratico, finalmente si decidono a mettere in atto.
Tuttavia, esattamente come accade nella zona Euro, dove chi cresce meno fa presto a dare la colpa alla moneta unica, così anche in Africa in tanti sono tentati di fare lo stesso. E ora, per motivi tutti politici, gli uni (europei) cercano di dare una sponda agli altri (africani).
Resta il fatto che, guarda caso, si tratta di monete che non tolgono ad alcuni di questi Paesi la possibilità di mettere a segno progressi doppi del Pil rispetto ad altri. Probabilmente allora c’è dell’altro. E quindi sarà il caso di trovare un altro capro espiatorio per spiegare le proprie disgrazie.