A tre mesi dall’omicidio di Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, si è aperto a Riad il processo a undici sospetti accusati di coinvolgimento nel delitto del giornalista dissidente. Per cinque di loro è stata confermata la richiesta di condanna a morte. Fra gli imputati ci sarebbe anche il numero due dei servizi di intelligence sauditi, il generale Ahmed al-Assiri. Escluso da ogni indagine e accusa è invece il principe ereditario Mohammed Bin Salman in quanto, secondo la procura, all’oscuro dell’operazione. La trasparenza sul dibattimento da parte delle autorità saudite è però minima. Niente di sorprendente: fin dalle prime ore dalla scomparsa del reporter, infatti, è stato chiaro quanto sarebbe stato complesso ricercare la verità di un caso che ha acceso prepotentemente i riflettori sui rapporti controversi tra l’Arabia Saudita, gli altri Paesi del Medio Oriente e quelli occidentali.
Jamal Khashoggi, pur essendo stato in passato un fedele consigliere dei governanti sauditi, dal 2017 si era rifugiato negli Stati Uniti, temendo che la propria incolumità fosse messa in pericolo dalla sua attività di giornalista dissidente dopo aver criticato apertamente alcune decisioni del principe bin Salman, come l’appoggio al colpo di stato militare in Egitto, l’intervento militare in Yemen e le politiche verso il Qatar. Dalle colonne del Washington Post aveva più volte denunciato gli attacchi subiti da giornalisti, intellettuali e leader religiosi non allineati con la monarchia.
Il 2 ottobre 2018 dopo essere entrato nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul a ritirare dei documenti per poter sposare la sua fidanzata turca, che lo aspettava fuori, è sparito. Le autorità saudite, dopo aver cercato maldestramente di depistare le indagini e aver fornito ipotesi sulla scomparsa spudoratamente inverosimili, hanno ammesso, in una nota ufficiale del procuratore generale del 25 ottobre, che quello di Khashoggi è stato un omicidio premeditato.
Il delitto e i suoi macabri dettagli, rivelati dalle autorità turche, sono riusciti in ciò che ripetute denunce delle organizzazioni per i diritti umani, un conflitto in Yemen (che fa morire di fame e colera migliaia di bambini) e le accuse di presunto sostegno ai gruppi jihadisti non avevano ancora ottenuto: far aprire gli occhi (anche se presumibilmente, non per molto) sull’Arabia Saudita e sul principe ereditario, dopo che i media, soprattutto europei, avevano superficialmente acclamato le annunciate riforme e il permesso concesso alle donne di guidare come l’inizio di una nuova era di progresso in Medio Oriente.
La realtà infatti è ben diversa. Come riporta la ong Human Rights Watch, nel 2017 in Arabia Saudita sono state eseguite 146 esecuzioni, 59 per reati di droga non violenti. Decine di difensori dei diritti umani e attivisti stanno scontando lunghe pene detentive per aver criticato le autorità o aver reclamato riforme politiche e miglioramenti dei diritti civili. Le autorità discriminano sistematicamente le donne e le minoranze religiose e la tortura e altri maltrattamenti verso i detenuti sono all’ordine del giorno. Inoltre, manifestare solidarietà nei confronti dei qatarioti dopo la crisi con Doha è considerato un reato.
Il progetto di Mbs è sicuramente quello di riformare il suo Paese, ma di certo non ispirandosi ai Paesi occidentali e mantenendo un atteggiamento chiuso nei confronti dei diritti umani, civili e politici. Sebbene lontano dal rischio di essere riconosciuto come il mandante dell’omicidio di Khashoggi, l’uomo forte di Ryad ha dovuto fare i conti con lo sdegno internazionale, a partire dal boicottaggio di molti partecipanti e dei media al vertice Future Investment Initiative (il c.d. Davos del deserto) tenutosi nella capitale saudita dal 23 al 25 ottobre con lo scopo di promuovere l’agenda di riforme.
Il progetto di Mohammed Bin Salman è sicuramente quello di riformare il suo Paese, ma di certo non ispirandosi ai Paesi occidentali. Sebbene lontano dal rischio di essere riconosciuto come il mandante dell’omicidio di Khashoggi, l’uomo forte di Ryad ha dovuto fare i conti con lo sdegno internazionale, a partire dal boicottaggio al vertice Future Investment Initiative (il c.d. Davos del deserto)
Regno Unito e Stati Uniti hanno boicottato la Conferenza, così come la Cnn e il Financial Times. Anche i leader di HSBC, Credit Suisse, Standard Chartered e BNP, il Ceo di Uber, il presidente di Ford e il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale hanno dato il ben servito. Ma sebbene anche al G20 in Argentina le relazioni tra i leader mondiali e il principe siano apparse imbarazzate (a parte l’inusuale e caloroso saluto datogli da Putin), Mohammed bin Salman sa di poter sempre contare sulla fruttuosa (300 miliardi di dollari di armi vendute nel 2017 dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita) e di lunga data alleanza con Washington. Trump ha infatti dichiarato che «l’Arabia Saudita resta un grande alleato», aggiungendo che il principe ereditario «forse sapeva e forse no, e forse non sapremo mai veramente come sono andati tutti i fatti».
Solidarietà arrivata al principe anche da parte di Israele, che può sorprendere solo gli ingenui. Gerusalemme e Ryad sono infatti uniti dall’avversione per lo sciita Iran, verso il quale sono state recentemente reintrodotte sanzioni da parte degli Stati Uniti.
Tenendo a mente questa triplice alleanza, e considerando i buoni legami tra Teheran, il Qatar e la Turchia, si capisce quanto poco casuale e votato alla filantropia sia stato l’impegno del presidente turco Erdogan nella ricerca della verità sul caso Khashoggi. Da abilissimo stratega come ha più volte dato prova di essere, il Sultano è riuscito a ottenere per sé uno status internazionale migliore, modificando, anche se solo in parte, la visione di leader autoritario e repressivo che l’Occidente ha di lui.
Per quanto riguarda l’Italia, il Presidente del Consiglio Conte al G20 si era dichiarato volenteroso a far luce sul delitto e ad esigere trasparenza. Inoltre, durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno a Roma ha reso nota la sua volontà di interrompere la vendita di armi all’Arabia Saudita, impiegate tra l’altro nei bombardamenti di civili in Yemen. Staremo a vedere.
Di sicuro, quello che fa da cornice al caso Kashoggi è un contesto infinitamente complesso e lungi dall’essere trasparente, che sarà anzi probabilmente in grado di gettare nell’ombra perfino la ricerca della verità sull’uccisione di un giornalista scomodo entrato nell’ambasciata saudita di Istanbul e uscitone fatto a pezzi dentro una valigia.