Alidad Shiri, 27 anni, afghano di origine hazara, alla fine dice una cosa semplice che molti sembrano non capire: «Nessuno vuole essere un rifugiato. È la vita che ti porta ad esserlo». Parola di un ex ragazzino che ha iniziato a scappare a dieci anni attraversando frontiere a piedi, a cavallo, legato con una cinghia al semiasse di un camion, vincendo la paura e i pidocchi, la fame e la sete. Un’odissea che ha raccontato in un paio di libri. Via dalla pazza guerra, scritto nel 2007 per Il margine, insieme a Gina Abbate, la sua insegnante a Trento, tradotto in diverse lingue. Lo scorso novembre è uscito Anche Superman era un rifugiato pubblicato da Piemme, che raccoglie storie e graphic novel di chi come lui, ha attraversato mari e monti per salvarsi e per essere qui a raccontarlo: «Mi reputo fortunato e per questo sento di essere la voce di tanti che non hanno più voce o che non riescono a essere ascoltati». La storia della sua fuga e della fuga di tanti come lui attaccati sotto un camion, è finita anche nel documentario La voce di Patrasso del regista hazara Basir Ahang, che abbiamo intervistato per NuoveRadici.World.
Alidad Shiri, come inizia la sua storia?
«Sono nato a Ghazni in Afghanistan, una zona hazara. Fino ai dieci anni la nostra è stata una vita tranquilla. Andavo a scuola, viaggiavamo… Mio padre era laureato in Giurisprudenza, un funzionario pubblico e un capo politico. Si muoveva sempre con due guardie del corpo. Poi un giorno è stato ucciso in un attentato dei talebani che avevano messo una mina sulla sua strada. Sei mesi dopo ho perso mia madre, la mia sorellina piccola e mia nonna. Si può dire che sono nato e cresciuto con la guerra. Per un anno non sono andato a scuola. Ma non si poteva più vivere in Afganistan. Era un periodo molto difficile sotto i talebani. Non si poteva guardare la tv, andare a teatro o ascoltare la musica. Andarmene è stata una scelta obbligata. Per questo dico che i profughi non scelgono di esserlo ma se lo diventano è perché sono costretti dalla vita».
Come si fa a fuggire a dieci anni?
«Con mia zia e la sua famiglia ci siamo rifugiati in Pakistan. Mio zio aveva aperto un negozio di elettronica e io lo aiutavo. Ma per me era pericoloso stare anche lì. Ero figlio di un dirigente politico. I talebani avrebbero potuto uccidermi solo per questo. Così a dodici anni mi sono messo in viaggio, da solo e con qualche soldo».
Da solo?
«Ho impiegato 24 giorni per arrivare in Iran. Ho preso autobus, cavalli, sono andato a piedi. Non potevo farmi la doccia. Avevo i pidocchi. Quando sono arrivato in Iran ho lavorato per due anni in una fabbrica. Ma solo di notte perchè ero senza documenti. Ma non era la mia vita. Io sognavo di studiare, di diventare avvocato e tornare nel mio Paese. Se avessi continuato a lavorare in quella fabbrica non sarei mai riuscito a realizzare il mio sogno. Così un giorno ho dato 900 dollari americani a un trafficante perché mi facesse arrivare in Turchia».