L'accoglienza (quella buona)Viva i corridoi umanitari, l’esempio perfetto di come dovrebbe funzionare l’immigrazione dall’Africa

Consentendo l’ingresso di rifugiati umanitari in Italia, contribuiscono all’integrazione e a togliere persone vulnerabili dai viaggi sui barconi. Ma i numeri contenuti non consentono di implementare il modello su larga scala. Ecco perché servono soluzioni alternative

Amos Gumulira / AFP

Si è detto, a sinistra come a destra, che siano i canali migliori per consentire l’immigrazione regolare. Lo stesso Matteo Salvini ha dichiarato di approvarli e di ritenerli la strada da percorrere per accogliere rifugiati in maniera sicura e legale nel nostro paese, contrariamente ai barconi in partenza dalla Libia.

Sono i corridoi umanitari, quei protocolli che consentono ai rifugiati di entrare in Italia in maniera protetta, a bordo di regolari voli di linea, evitando di mettersi nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Rivolti specificatamente a persone che soffrono di particolari vulnerabilità politiche, fisiche o sociali (a differenza dei programmi Onu, che prevedono un ricollocamento di gruppi consistenti di rifugiati in un paese terzo – di solito confinante – senza particolare selezione), costituiscono un canale sicuro di accesso in Italia e di integrazione controllata e assistita sul territorio.

Il sistema, com’è noto, è gestito da diverse congregazioni religiose, in partnership con il governo italiano e l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Il primo corridoio è stato avviato nel 2016, anche se la possibilità di fare accoglienza ai rifugiati in maniera alternativa (e legale) rispetto ai canali tradizionali è prevista già da tempo. «Si tratta di una misura prevista dal parlamento europeo, che l’ha votata nel 2001 dopo la guerra del Kosovo», spiega a Linkiesta Stefano Pasta della comunità di Sant’Egidio. «Dopo le stragi del 2014 e 2015, non volendoci rassegnare alle morti in mare, abbiamo iniziato a studiare delle alternative per tutelare queste persone, abbiamo trovato questo “escamotage” e oggi facilitiamo il processo».

Ad oggi, circa 2000 persone sono state accolte attraverso i corridoi umanitari. I canali attualmente attivi sono quello tra Italia e Libano gestito dalla comunità di Sant’Egidio in collaborazione della Federazione delle Chiese evangeliche e la Tavola valdese, che ha già portato in Italia 1000 profughi siriani, e che di recente è stato rinnovato per accogliere altre mille persone. A novembre 2018, invece, ne è stato aperto un altro in Etiopia tramite Sant’Egidio, Caritas Ambrosiana, Fondazione Migrantes e Cei per accogliere altri 500 richiedenti asilo provenienti dal Sudan, Somalia ed Eritrea.

Come funzionano i corridoi? Nella pratica, le organizzazioni hanno dei partner o dei gruppi interni nel paese, con cui cooperano per selezionare da liste già elaborate dall’Unhcr le persone che hanno i requisiti per godere della protezione umanitaria. «Parliamo di persone affette da patologie più o meno gravi, donne sole e donne sole con bambini, persone che hanno subito violenze e torture, secondo la definizione stabilita dall’Onu, e quindi meritevoli di particolare tutela», spiega a Linkiesta Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas. Per queste persone sono dunque previsti dei canali “preferenziali” di trasferimento e accesso in Italia: «Vengono fatti numerosi colloqui e, per quelli per cui va a buon fine, viene avviato il percorso: si contatta l’ambasciata, vengono verificate le impronte digitali per accertarsi che non ci siano trascorsi giudiziari problematici, vengono fatte visite mediche. Tutto questo poi porta al rilascio del visto umanitario e, all’arrivo in Italia, all’inserimento nel sistema di accoglienza delle diocesi». Un inserimento fatto di accoglienza diffusa piuttosto che di Cas, di inserimenti nelle diocesi con famiglie tutor, di percorsi di accompagnamento con psicologi, mediatori culturali e un’altra serie di figure specializzate piuttosto che di assistenza di massa. L’obiettivo è di creare attorno a loro una rete sociale, di amici e famiglia. «Non sono le strutture di accoglienza che fanno integrazione, ma le relazioni di amicizia e vicinato», puntualizza Pasta.

Ad oggi, circa 2000 persone sono state accolte attraverso i corridoi umanitari. I canali attualmente attivi sono quello tra Italia e Libano gestito dalla comunità di Sant’Egidio in collaborazione della Federazione delle Chiese evangeliche e la Tavola valdese, che ha già portato in Italia 1000 profughi siriani, e che di recente è stato rinnovato per accogliere altre mille persone. A novembre 2018, invece, ne è stato aperto un altro in Etiopia tramite Sant’Egidio, Caritas Ambrosiana, Fondazione Migrantes e Cei per accogliere altri 500 richiedenti asilo provenienti dal Sudan, Somalia ed Eritrea

Molte sono le differenze in termini sia quantitativi che qualitativi rispetto ai programmi di accoglienza governativi. A partire dal fatto che per i corridoi umanitari non sono previsti finanziamenti pubblici, ma la presa in carico è tutta sulle spalle delle chiese. I corridoi umanitari si contraddistinguono poi per un alto tasso di successo: «questo si misura in base ai movimenti secondari, cioè le fughe – chi si allontana è perché non ha trovato un’opportunità. A noi questo succede per il 5%. Ciò dimostra che, se c’è un processo ragionato e organizzato in un certo modo, il risultato è positivo», spiega Forti.

Problematica in questo senso è però la “scelta”: per forza di cose si deve selezionare un numero ristretto di persone attingendo a bacini enormi di potenziali candidati. «In campi che arrivano a contare anche 30mila persone, noi ne selezioniamo 50-100», puntualizza Forti.

Una media di 500 persone all’anno arrivate negli ultimi tre anni, infatti, non è propriamente una cifra da capogiro. «Si tratta di numeri piccoli perché non c’è una volontà politica ad avere numeri più consistenti e a finanziare l’accoglienza di rifugiati. Noi potremmo fare numeri molto più alti, e anche sul territorio c’è una buona risposta», dichiara Pasta.

Il tema politico, infatti, è preponderante in questo senso. Sant’Egidio è tra le associazioni che avevano firmato l’appello per Sea Watch nei giorni scorsi, e alcuni di loro erano anche a Catania in occasione dello sbarco. Ma c’è da fare molto di più: «I trafficanti non si contrastano con assurde chiusure dei porti», dice Pasta. «Noi creiamo delle alternative legali alle morti in mare e i corridoi umanitari sono una di queste. Per coloro che non hanno diritto alla protezione umanitaria noi chiediamo riaprire ingressi legali per lavoro. Poi chiunque può fare i proclami che ritiene».

Checché ne dica il ministro dell’Interno, i corridoi umanitari costituiscono un buon esempio di accoglienza, ma non potrebbero mai costituire la soluzione ultima al tema dell’immigrazione clandestina. «I corridoi umanitari sono una goccia nel mare magnum dell’immigrazione. La gestione delle migrazioni deve essere una questione pubblica. Ideale sarebbe un mix tra pubblico e privato», conclude Forti. «Noi l’abbiamo fatto perché abbiamo un obbligo nel nostro statuto di accoglienza. Occorre accompagnare un paese come il nostro sui temi dell’accoglienza e della vicinanza. Noi stiamo usando molto lo strumento dei corridoi umanitari per sensibilizzare sul tema, ma sull’immigrazione serve uno sforzo globale».