E alla fine, mentre maggio si avvicina e con lui le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, si può persino scoprire che nel cuore del ciclone da molti temuto e da altrettanti invocato c’è il leader del Paese che meno conta nella Ue, quell’Ungheria che “ha dieci milioni di abitanti, un Prodotto interno lordo di 114 miliardi di euro e solo ventimila soldati”.
Già, proprio lui, Viktor Orban, quattro volte primo ministro, fondatore e leader del partito Fidesz, da più di vent’anni signore indiscusso della politica ungherese. Per noi Orban è il bullo, il fascista, quello che ha messo la mordacchia ai magistrati e il silenziatore alla stampa. Quello che ferma i migranti col filo spinato e ferma la Ue concertando con gli altri Paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) il massimo di boicottaggio delle iniziative comunitarie non gradite, per esempio (di nuovo) la redistribuzione su scala continentale dei migranti.
Ma che succederebbe se provassimo a guardare Orban un po’ più dall’alto, con maggiore distacco, senza peraltro obbligarci a farcelo piacere? Vedremmo forse quello che, alla fine degli anni Settanta, vedeva l’allenatore del Felcsut, la squadra di calcio del villaggio in cui Orban, figlio di un ispettore di miniere comunista e di una logopedista, era cresciuto e dove tuttora possiede una casa di campagna. Scriveva dunque il trainer: “Viktor Orban, attaccante. Astuto e veloce, buon tiro, doti di passatore”.
Che se ci pensiamo, sono le doti del perfetto democristiano. Appare, scompare, fa le finte, colpisce duro. Le caratteristiche che emergono appunto da quel discorso tenuto nel giugno del 2017, nel primo anniversario della scomparsa di Helmut Kohl. Orban parla e fa il modesto, si schermisce. Figuriamoci se noi, da questa piccola Ungheria con poca gente, pochi soldi e pochissimi soldati, possiamo pensare di dire alla Ue che cosa bisogna fare. Per aggiungere, però, che «l’Ungheria e gli ungheresi sono ricchi di orgoglio e di rispetto per se stessi, ma hanno anche un solido e realistico senso del proprio ruolo. Per noi l’Ungheria viene prima di tutto… L’ambizione degli ungheresi è di vivere in una forte Europa centrale i cui Paesi riescano a cooperare e ad aiutarsi l’un l’altro». A buon intenditor…
Kohl, altro super democristiano nonché artefice della riunificazione tedesca e assertore dell’unità europea, ebbe con Orban rapporti più che cordiali per oltre vent’anni. Fu proprio Kohl a favorire l’ingresso del partito Fidesz nel Partito popolare europeo. Orban, per parte sua, gli ha sempre reso omaggio come a un maestro, facendo leva sulla comune idea di un’Europa con radici cristiane e ricordando a tutti che, al momento del crollo del Muro, l’Ungheria era uno dei pochissimi Paesi a non avere paura della riunificazione tedesca. L’ultimo favore reciproco se lo fecero nel 2016. Kohl ricevette Orban poco dopo essersi pronunciato contro la politica di apertura ai migranti della sua ex pupilla Angela Merkel. Lo stesso Orban che poco prima aveva incontrato Horst Seehofer, il leader della Csu bavarese che, sulle stesse questioni, aveva portato il Governo tedesco sull’orlo della crisi.
Insomma. Questo democristiano di Orban ha usato per anni il Ppe come una specie di scudo nucleare rispetto alle autorità della Ue, per applicare le sue politiche in patria e, nello stesso tempo, allargare verso destra i margini della coalizione “popolare” e alla fin fine dare dignità anche in Europa all’agenda nazionalista e sovranista che fino a qualche tempo fa sembrava una bestemmia. Operazione cinica e astuta, condotta su scala continentale, ma non nuova nella biografia di Orban. Non era lui il giovane sociologo mantenuto agli studi a Londra dalla Open Society di George Soros che aveva fondato Fidesz come partito liberale e progressista e l’aveva poi mano mano spostato su posizioni conservatrici e infine nazionalistiche?
In Europa il massimo scotto pagato da Orban è stata l’attivazione, nel settembre scorso, dell’articolo 7 del Trattato della Ue. Ma è impossibile che la procedura per privare l’Ungheria dei suoi diritti di Paese membro, causa la sistematica violazione dei valori fondativi dell’Unione, arrivi fino in fondo. E lo sanno bene sia Orban sia i suoi critici.
Così qui siamo. Siamo che Orban ha resistito e adesso di democristiano ne è spuntato un altro. Si chiama Manfred Weber, è bavarese, è un pezzo grosso della Csu, è stato il capogruppo del Partito popolare all’Europarlamento e ora si candida alla guida della Commissione europea. Lo spinge anche la Merkel, un po’ perché quietare i bavaresi serve a stabilizzare il suo governo, un po’ perché ha già annunciato il ritiro, e molto perché ha paura di un’ulteriore crescita della destra estrema.
Orban ha usato per anni il Ppe come una specie di scudo nucleare rispetto alle autorità della Ue, per applicare le sue politiche in patria e, nello stesso tempo, allargare verso destra i margini della coalizione “popolare” e alla fin fine dare dignità anche in Europa all’agenda nazionalista e sovranista
Una delle prime cose che Weber ha detto da candidato è stata: bisogna dialogare con i sovranisti. Parlarsi, smettere di demonizzare. Sulle cose evidenti come i migranti da frenare o le frontiere esterne d’Europa da difendere, per esempio. Ma anche su quelle meno evidenti. Tipo il rapporto della Germania con i quattro di Visegrad, da Orban così riassunto nel famoso discorso in memoria di Kohl: «Il traffico commerciale della Germania con noi di Visegrad è oggi significativamente maggiore di quello con, per esempio, Francia, Italia o Regno Unito. I tedeschi realizzano ottimi guadagni con noi. Né per loro né per noi ci sono ragioni di lamentela».
Nella mente di Weber e del Ppe, ovviamente, dialogare con i sovranisti serve a molte altre cose. Per esempio ad ammortizzare l’ulteriore, prevedibile calo dei socialdemocratici, da tempo in crisi nera quasi ovunque, dalla Germania all’Italia alla Francia. Se vorrà governare l’Europa, il Ppe (anch’esso dato in calo, ma non drammatico) dovrà trovarsi una spalla. Appoggiarsi a un vasto rassemblement di partiti sovranisti o simili, dalla Lega Nord a Fidesz, dal polacco Diritto e Giustizia all’Fpoe austriaco alleato del popolare Sebastan Kurz, più qualche altro che dai liberaldemocratici dell’Alde – uno su tutti ANO 2011, il partito del premier ceco Andrej Babiš – potrebbe arrivare una volta contati i seggi, fornirebbe i numeri necessari alla corsa al potere senza dover contare sui socialisti europei.
Certo, il Ppe avrebbe poi il problema di tenere a bada quella masnada di scomodi alleati. Perché per Weber governare la Ue che in questi anni ha sposato le teorie finanziarie ed economiche tedesche, per poi vedersi svuotare le istituzioni dall’interno in nome di quella maggiore autonomia da Bruxelles che è il mantra dei sovranisti tutti, non sarebbe un gran risultato.
E in coda a questa fila di paradossi e spiazzamenti scopriamo che proprio l’Italia, la renitente Italia, è lo specchio perfetto della tremolante Europa. Qui da noi c’è Berlusconi che propone il patto popolari-sovranisti alla Lega, offrendole l’allettante prospettiva di avvicinare la stanza dei bottoni di Bruxelles, l’unica che conta. E la Lega, come ogni altro, ha scoperto in fretta, in questa esperienza di governo, quanto sia pesante criticare la Ue senza poter intervenire davvero nei suoi meccanismi. Berlusconi, in cambio, nutre la speranza che il patto siglato in Europa possa poi trasferirsi in Italia, riportando Forza Italia al governo, anche se col rango scomodo del socio di minoranza.
Se l’idea di Weber troverà applicazione, toccherà ai Cinque Stelle l’ardua sentenza. Entrare nel gruppo, mortificarsi un po’, pesare in Europa e proteggere l’alleanza di governo in Italia. Oppure conservare la purezza, star fuori dal gruppo, continuare a essere ininfluenti in Europa ma tenere sotto controllo le tentazioni berlusconiane della Lega? Come diceva lo scrittore inglese Francis King: “Quei giorni di maggio quando tutto è suggerito, e niente ancora soddisfatto”. E non aveva ancora visto le elezioni europee.