E va bene, viva l’ottimismo: guardiamo pure il bicchiere mezzo pieno. Dalle prossime elezioni europee, secondo le prime proiezioni diffuse ieri dal Parlamento Europeo stesso, l’ultradestra e le altre coalizioni di movimenti “revisionisti” usciranno sì rafforzati, ma incapaci di rovesciare il tavolo e prendersi il governo dell’Ue. Lo dicono i numeri: per allearsi col “gruppone” di testa del Ppe – quello di Merkel e Juncker, ma anche di Orbán, accreditato oggi di 183 seggi – gli euroscettici dovrebbero portare a Strasburgo qualcosa come 170 deputati. Raccogliere sostanzialmente un voto su quattro, altrimenti detto, considerato che il totale in palio nel nuovo Parlamento sarà di 705 seggi.
Con buona pace degli arrembanti gialloverdi italiani, un obiettivo fuori portata, oggi. La Lega – a meno di imperscrutabili riallineamenti cosmici – farà il boom, più che quadruplicando i suoi uomini al Parlamento Ue come già avvenuto in quello italiano, e una prova di forza la daranno anche altre forze populiste come l’Afd in Germania, il Rassemblement National di Marine Le Pen in Francia e il Pis di lotta e di governo polacco. Ma “quota 170” – o oltre – resta al momento lontana. Anche immaginando un’alleanza larga tra tutte le forze euroscettiche d’Europa – compreso il gruppo ancora traballante di cui farà parte il M5S – la nidiata sovranista si comporrebbe al massimo di 153 deputati. Tanti, ma non abbastanza da costringere il Ppe a spostare l’asse verso destra, su un’agenda di dis-integrazione dell’Europa e dei diritti.
Le buone notizie, però, finiscono qui. Perché la politica, quella sul terreno, viaggia a ritmi imprevedibili, e da qui a fine maggio nulla garantisce che le convulsioni interne ad uno o più dei grandi Stati membri non portino a ulteriori scossoni, ridisegnando la mappa elettorale del continente. Come? Ecco almeno cinque vicende che nelle prossime settimane potrebbero far cambiare radicalmente lo scenario – in peggio.
1. La trappola di Weber
Il potere, insegnava un secolo fa Max Weber, è la possibilità per qualsiasi individuo di far valere la propria volontà dentro una relazione sociale. Oggi un suo omonimo – non risultano legami di parentela – si scalda a bordo campo in attesa di esercitarlo su scala europea. Il nome di Manfred Weber non vi dice niente? Tranquilli, è normale. Ed è proprio questo il primo problema.
L’ex capogruppo dei popolari al Parlamento Europeo è il candidato designato dal Ppe alla carica di prossimo presidente della Commissione Ue. Il che non ne fa certo in automatico il prossimo erede di Jean-Claude Juncker, poiché le sorprese sono sempre possibili, ma se come sembra il suo schieramento rivincerà per distacco a fine maggio le sue chances di guidare l’Ue sono molto alte. Chi è e cosa vuole davvero Weber, dunque?
La risposta è ancora molto incerta: politico navigato a Bruxelles, il 46enne bavarese deve costruirsi uno standing continentale, e l’operazione comincia ora. I panni del predestinato, in casi come questo, non sono comodi per nessuno: se darà l’impressione di considerare acquisita l’opzione della Grande Coalizione con socialisti e liberali, Weber rischia di alienarsi prima ancora di cominciare le simpatie di decine di milioni di elettori, sospingendoli tra le braccia della “destra-destra”; ma se proverà a sfidare i populisti sul loro stesso terreno, magari indurendo parole d’ordine e promesse sul tema migranti, rischia di fare il gioco di Salvini & co., e di rendere di fatto impossibile ogni alleanza centrista dopo il voto. Ogni suo passo falso insomma potrebbe regalare altro fieno elettorale ai sovranisti.
2. Bandiera gialla trionferà?
Come uscirà davvero Macron dall’”assedio” dei gilet gialli in Francia? Sino a non più di un anno fa, la gran parte degli osservatori erano convinti che l’ambizioso presidente francese sarebbe stata la carta in più dei liberali alle Europee: giovane, fresco, slegato da vincoli ai “vecchi” partiti tradizionali, un gruppo politico europeo da lui ispirato avrebbe potuto mettere ko i populisti d’Europa e, forse, diventare perfino l’ago della bilancia. Oggi le parti si sono esattamente ribaltate. Osteggiato da fette crescenti di suoi concittadini, Manu osserva inorridito gli eventi da un Eliseo mai così isolato, e la palla ora sembra tutta nel campo dei gilet gialli. Che ne sarà dell’ondata di proteste che da tre mesi sconvolge – letteralmente – il Paese?
Tra violenze continue, derive antisemite e danni economici, diversi sondaggi indicano che una parte di francesi inizia a voltare le spalle al movimento. Ma se gli incerti leader della protesta decidessero di raccogliere i frutti dell’enorme seguito accumulato lanciando una forza politica vera e propria in grado di correre alle Europee? Quanti voti sarebbe in grado di raccogliere, e di “trainare” in tutti gli altri Paesi?
Anche immaginando un’alleanza larga tra tutte le forze euroscettiche d’Europa, la nidiata sovranista si comporrebbe al massimo di 153 deputati. Le buone notizie, però, finiscono qui. Perché la politica, quella sul terreno, viaggia a ritmi imprevedibili, e da qui a fine maggio nulla garantisce che le convulsioni interne ad uno o più dei grandi Stati membri non portino a ulteriori scossoni, ridisegnando la mappa elettorale del continente
3. La febbre spagnola
Era alto, bello, sorridente e di solide vedute europee: ma è caduto. Pedro Sánchez, l’ultimo erede della storica tradizionale socialista spagnola, lo scorso giugno è riuscito a mandare in pensione il vecchio popolare Mariano Rajoy sfilandogli abilmente la guida del Paese. Ma il suo governo, fin da subito fragile, è durato meno di una gravidanza. L’intrattabile dossier catalano ha portato anche lui alla sfiducia del Parlamento sulla legge di bilancio, costringendolo a convocare elezioni anticipate. E dal voto del 28 aprile potrebbe emergere una maggioranza ben diversa.Assorbita l’ondata civica interpretata da Podemos e Ciudadanos, il “nuovo che avanza” iberico oggi si chiama soprattutto Vox: cresciuto comizio dopo comizio, il partito nazionalista di Santiago Abascal è “esploso” nelle elezioni amministrative di dicembre, conquistando un impressionante 11% in Andalusia tanto da poter condizionare il nuovo governo regionale Pp-Ciudadanos. Una premessa di quello che potrebbe accadere nel resto del Paese a fine aprile? Se gli spagnoli risponderanno alle fibrillazioni separatiste della Catalogna svoltando a destra, il vento nazionalista potrebbe cominciare a spirare anche da sud-ovest…
4. Non svegliare can (tedesco) che dorme
Con il Regno Unito ai saluti (forse, vedi sotto), Macron assediato dai problemi interni e l’Italia auto-emarginata dagli affari europei, mai come ora la Germania è e sarà il baricentro d’Europa. Lo è politicamente, ma anche numericamente. Come Paese più popoloso dell’area, ha diritto al numero di gran lunga più alto di parlamentari europei: 96, contro i 79 della Francia e i 76 dell’Italia. Ogni scossone politico in Germania insomma pesa più di quello in ogni altro Paese dell’Ue. Ecco perché conviene tenere ben d’occhio la situazione a Berlino e dintorni.Sino ad ora, stando alle prime proiezioni, l’equilibrio europeista del Paese sembra reggere. I socialdemocratici sono in caduta libera e anche la Cdu sconterà nelle urne il calo di popolarità del governo, ma l’ascesa dell’estrema destra dell’Afd rimane tutto sommato sotto controllo e parzialmente bilanciata da quella “euro-entusiasta” dei Verdi. Ma se qualche fatto nuovo dovesse accendere la campagna elettorale tedesca? Il Paese non è stato immune negli ultimi mesi da tensioni sulla gestione degli immigrati – sino a minacciare la tenuta del governo la scorsa estate – e ora a incupire l’atmosfera sono dati economici cui nessuno era più abituato: crescita zero, export in difficoltà, guerra totale dall’amministrazione Usa. Se la situazione dovesse sfuggire di mano a una Merkel indebolita, l’Afd è pronta a sferrare la “zampata” elettorale.
5. La bomba nascosta
Andrà tutto bene, Theresa May troverà una soluzione insieme ai leader di Bruxelles e il 29 marzo il Regno Unito uscirà come previsto dall’Unione Europea. Ma se non dovesse succedere? La Brexit è diventata un incubo per i suoi stessi promotori, incapaci di andare oltre l’umiliazione a catena della malcapitata primo ministro ed immaginare una soluzione credibile per regolare il divorzio dall’Ue.Manca poco più di un mese, e se un accordo non dovesse essere trovato, le conseguenze possono essere solo due: un’uscita “disordinata” dall’Unione, che ogni istituzione indipendente ha riconosciuto come “catastrofica” per il Paese (oltre che per l’Ue); oppure la toppa dell’ultim’ora, il rinvio della deadline per Brexit. Nessuno ne parla pubblicamente, molti sono costretti a farlo nelle cancellerie europee: per evitare il disastro del no deal, il periodo negoziale potrebbe essere prolungato di qualche mese. Con il risultato paradossale che, a norma di legge, i cittadini britannici dovrebbero essere richiamati di gran fretta alle urne per eleggere i loro rappresentanti al Parlamento di un’Unione di cui sono ancora parte. Il numero di seggi da attribuire andrebbe ricalcolato da capo, e l’eventuale campagna elettorale inglese sarebbe tra le più surreali di sempre, con esiti politici imprevedibili. Non succederà: ma se dovesse succedere?