Compagno Sanremo: l’Italia è talmente di destra che Baglioni è diventato simbolo della sinistra

Sanremo è rimasto sempre Sanremo. È l’Italia che è talmente cambiata al punto che un tempio della conservazione come l’Ariston e un cantante come Baglioni vengono percepiti come agitatori da centro sociale

Sanremo è sempre Sanremo. È l’Italia che è cambiata al punto che perfino un tempio della conservazione come l’Ariston è percepito come un Centro Sociale Occupato, un covo di rompicoglioni militanti, l’ultima ridotta del radicalismo. Matteo Salvini non ha visto il Festival, eppure sostiene di averne avvertito l’ostilità: «So che non mi amano, ma ho imparato che alla rabbia della sinistra bisogna rispondere con un sorriso». E così ha replicato alle battute di Pio e Amedeo – si è fotografato sorridente, con i comici inquadrati sullo schermo dietro le spalle, dopo che i due avevano rassicurato Claudio Baglioni che Salvini «non è pericoloso: all’inizio dice peste e corna, ma poi tra due o tre anni ti ama: è quello che ha fatto con noi meridionali».

La sinistra è come l’insicurezza: è soprattutto percepita. E più i dati dimostrano che si assottiglia, fino quasi a estinguersi, più svolazza nel lessico salviniano come uno spettro, minacciando i luoghi più privati, come il riposo sul divano di casa, alla sera, davanti alla tivù accesa sullo spettacolo dell’estremismo italiano, che è la moderazione, il vero cuore del Festival.

Sanremo non si è mosso di un millimetro dalla sua eterna pacatezza e dalla sua misura – è la misura che è cambiata. Così il Festival, il luogo sacro che custodisce la reliquia degli italiani brava gente, la Chiesa dentro la quale, ogni anno, l’Italia rinnova l’immagine che ha di sé, con la forza della liturgia televisiva, è stato osservato dalla politica come si osserva un potenziale sedizioso: al governo, con il timore di essere attaccato, all’opposizione, con la speranza che da lì arrivasse un colpo al nuovo potere.

L’Italia si è spostata così a destra che anche il Festival di Sanremo, messa cantata dell’immobilità nazionale, è stata percepita come un canto partigiano

Malgrado ciò, Sanremo è rimasto Sanremo: ha cantato un popolo che sospira per amore, si fa cullare dalle melodie orchestrali, rifugge dalle distorsioni, come dai conflitti, ed è disposto ad accogliere le rotture solo dopo che sono diventate oggetti museali, come nella canzone di Achille Lauro, Rolls Royce: un inno agli eccessi rock‘n‘roll cantato quando gli eccessi del rock’n’roll sono diventati convenzione, una rivolta concordata con la polizia, in altre parole: sono morti.

Lo smarrimento è tutto nei versi della canzone di Motta: Dov’è l’Italia, amore mio?. Si è perso lui, ci siamo persi noi. Tutti abbiamo perso l’orientamento. L’Italia si è spostata così a destra che questa messa cantata dell’immobilità nazionale è stata percepita come un canto partigiano. E, per di più, diretto da un uomo, Claudio Baglioni, che non potrebbe essere più lontano dall’icona del cantante engagé di sinistra. Di lui, Edmondo Berselli scrisse che “al di là di ciò che esprimeva votando nel segreto dell’urna, sembrava in tutto e per tutto l’emblema dell’Italia democristiana”. Il cantante ideale da per accompagnare, con chitarra e coro, una vacanza in montagna organizzata da Comunione e Liberazione.

Nel 1988, quando Baglioni salì sul palco dell’Amnesty International Tour, a Torino, fu accolto dal pubblico progressista italiano con un lancio forsennato di ortaggi considerato indegno di promuovere la battaglia per i diritti umani, di cui oggi è diventato il primo testimonial

Eppure, quando nei giorni del braccio di ferro sulla Sea Watch 3 e Sea Eye, Baglioni ha detto che «non si può pensare di risolvere il problema di milioni di persone che sono in movimento, evitando lo sbarco di quaranta o cinquanta persone», e che «siamo un po’ alla farsa», è diventato l’avversario polemico principale dei sovranisti al governo, e un riferimento per i loro antagonisti. Nessuno avrebbe potuto nemmeno sospettarlo, figurarsi augurarselo, l’8 settembre del 1988, quando Baglioni salì sul palco dell’Amnesty International Tour, a Torino, per celebrare i quarant’anni della Dichiarazione dei diritti dell’uomo (c’erano Peter Gabriel, Bruce Springsteen, Sting, Tracy Chapman, Youssu N’Dour) e fu accolto dal pubblico progressista italiano con un lancio forsennato di ortaggi, cori di insulti e migliaia di mani levate in alto con il dito medio, considerato indegno di promuovere la battaglia per i diritti umani. Oggi è diventato il primo testimonial.

Sanremo è rimasto Sanremo: è il panorama tutto intorno che è diventato irriconoscibile. Nel 2010, Pierluigi Bersani andò al Festival da segretario del Partito democratico per accreditare se stesso e il suo mondo nel santuario del nazional-popolare, territorio nel quale la sinistra dei cantautori alla De André, alla Guccini, non era mai andata: «Il Pd – disse Bersani – è un partito popolare, senza snobismi. Va dove c’è la gente, dove la gente soffre, ma anche dove la gente si diverte».

Oggi, invece, per essere – o meglio, per essere percepiti di sinistra – è sufficiente essere sul palco a officiare la cerimonia. Non c’è bisogno di essere come Crozza, che, con Berlusconi che reggeva il governo delle larghe intese, iniziò un monologo contro (e fu fischiato). Basta far come Bisio, costretto, nella manichea divisione del mondo tra popolo ed élite, a recitare la parte dell’élite. Un esorcismo della sindrome dell’assedio vissuta quest’anno dai protagonisti del Festival. Tutti colpevoli fino a prova contraria. Manca solo che Baglioni esca con le mani alzate, dicendo: «Mi arrendo, sono circondato». Potrebbe essere un’idea. Simbolicamente, è la realtà.