Sempre meno aziende, sempre meno competitive: così la crisi ha falcidiato il sistema Italia

Come per la demografia, così per il mondo delle imprese: ne nascono di meno di quante ne muoiono. Siamo a livelli di Francia e Germania, che si affidano a colossi di grandi dimensioni, senza però avere la stessa potenzialità di crescita

Non siamo più il Paese della piccola impresa diffusa e capillare. O meglio, lo siamo ancora, ma forse non ancora per molto. Il trend degli ultimi anni, in parte già iniziato prima della crisi, è quello di una normalizzazione, di un adeguamento al resto d’Europa, in molti casi anzi di uno scivolamento dietro ad altri Paesi nei confronti dei quali in precedenza primeggiavamo.

Oggi quello in cui siamo primi è nel numero di aziende che cessano le attività. Secondo gli ultimi dati disponibili in sede europea sulla demografia aziendale l’Italia è il Paese in cui sono morte più imprese, più di 316 mila nel 2016. Segue la Spagna con poco più di 271 mila, il Regno Unito con circa 260 mila, e poi la Germania con 217 mila.

Eravamo però solo al quarto posto quanto a nascite. Ci superavano Regno Unito, Francia, e persino Spagna, nonostante i 14 milioni di abitanti in meno.

Sembra quasi un parallelo con la gelata demografica che viviamo a livello di popolazione. Non a caso infatti nel 2008 i dati erano differenti: nascevano più nuove aziende che in tutti gli altri Paesi, mentre quanto a fallimenti e chiusure eravamo secondi, ma con un saldo positivo di circa tremila imprese.

Nel 2016 era divenuto negativo di 20 mila!

Dati Eurostat

È dal 2013, proprio quando è cominciata in realtà la ripresa, che questo saldo è divenuto negativo, con 100 mila aziende in meno in quattro anni.

Dati Eurostat

L’Italia è ora di fatto allineata a Paesi in realtà strutturalmente molto diversi, fatti di grandi imprese e multinazionali, come Francia e Germania, e il posto dell’Italia lo stanno prendendo Spagna e Regno Unito.

Sono questi due Stati, secondo Eurostat, quelli in cui il tasso di nascita delle nuove aziende è maggiore ed in crescita, almeno tra i grandi Paesi.

In Spagna è arrivato al 10%, partendo da livelli italiani, poco più del 7%, nel Regno Unito, vero e proprio paradiso delle startup (perlomeno fino alla Brexit) al 15,1%.

È ironico, ma significativo, il fatto che il tasso di nascita di nuove imprese nel nostro Paese sia più basso degli altri, l’unico sotto il 10%, proprio nell’ambito di quelle imprese con zero dipendenti. Non siamo più il Paese degli artigiani, degli operai che si mettono in proprio e diventano padroncini.

Il tasso di morte è stato invece in salita, unico caso tra i grandi Paesi, mentre altrove, persino dove c’è stato un boom delle nuove aziende, come nel Regno Unito, è calato negli anni.

Dati Eurostat

E anche quando vi sono nuove imprese che vengono alla luce, queste coinvolgono ormai poche persone, 355 mila erano i dipendenti delle aziende nascenti nel 2016, erano 489.327 nel 2008, in un contesto, ricordiamolo di un’occupazione calata molto poco tra queste due date, circa del 2%, certo non del 28% come quella nelle imprese neonate.

In Spagna gli occupati in queste startup erano invece quasi 457 mila, nel Regno Unito 847 mila, in Francia 425 mila.

Solo in Germania, dove però l’occupazione era in una fase di boom, c’è stato un calo analogo.

Al contrario sono aumentati i lavoratori coinvolti in aziende che morivano. Di circa 65 mila unità tra il 2012 e il 2016. Ed eravamo ancora una volta l’unico Paese con un saldo negativo. Di circa 62 mila persone.

Mentre è divenuto positivo altrove, soprattutto in Francia, dove era ampiamente negativo in precedenza.

Come altri fenomeni anche la new wave delle startup in Italia è partita tardi, e si è sviluppata forse soprattutto in alcune narrazioni politiche e giornalistiche.

Contribuisce anche il fatto che la sopravvivenza delle imprese a 5 anni sia diminuita, e così i lavoratori rimasti nelle aziende neonate a 5 anni dalla fondazione, che sono diventati nel 2016 solo 153 mila in Italia (istogrammi in violetto), meno che negli altri Paesi e soprattutto meno dei 261 mila del 2012.

Dati Eurostat

È chiaro, la crisi ha innescato una selezione darwiniana, in un certo senso. Che non è stata per forza negativa.

Per esempio gli stessi dati ci dicono che tra le aziende che sono sopravvissute è cresciuto il tasso di aumento dell’occupazione nonchè le dimensioni, ovvero il numero medio di lavoratori. Un dato incoraggiante, perché uno dei nostri grandi difetti è sempre stato il nanismo aziendale, l’incapacità di crescere negli anni, spesso a causa del disincentivo posto dalle leggi, dalla burocrazia e dal fisco.

Tuttavia queste buone notizie si riferiscono a un numero calante di realtà. La differenza più significativa è che le imprese che una volta galleggiavano oggi chiudono.

E questa non è invece una buona notizia.

Se anche vogliamo staccarci dalla retorica della piccola impresa che nasce da un operaio che si mette in proprio e crea lavoro, non più attuale a questo punto, dobbiamo offrire un’alternativa. Che però non c’è, perchè non siamo diventati nel frattempo un Paese attrattivo per la grande azienda, per le multinazionali.

Stiamo finendo di essere l’Italia senza nel frattempo essere diventati la Germania e la Francia