Al di là del giudizio di ognuno, che non è stato completamente unanime per ora, su una cosa quasi tutti coloro che hanno recensito The Mule, il nuovo film del quasi novantenne Clint Eastwood che uscirà nelle sale italiane il 7 febbraio, sono d’accordo: anche se all’apparenza sembrerebbe impossibile associare il volto del duro e burbero Eastwood a quello di Earl, il simpatico e fragile vecchietto appassionato coltivatore di fiori protagonista del film, questo è uno dei film più autobiografici di Clint Eastwood.
Ma attenzione, sebbene lo dicano esperti inequivocabili del settore come Natalia Aspesi e Paolo Mereghetti, che per fortuna non sono il Littré e pur loro qualche volta sbagliano, questo non è un film autobiografico didascalicamente perché il protagonista è un novantenne come Clint. Esattamente come, nonostante il vecchietto floricoltore da lui interpretato venga rovinato dall’ascesa di internet e non di rado indichi i cellulare come la causa di ogni male, The Mule non è un film autobiografico nemmeno perché se la prende contro le nuove tecnologie come Clint Eastwood, che nella vita — tutto vero — si farebbe ammazzare piuttosto che mandar un sms da un cellulare.
No, questo film è un film autobiografico perché parla di qualcosa di molto più profondo, qualcosa che riguarda Clint Eastwood molto di più dell’avere quasi 90 anni, del detestare il cellulare o dell’essere un vecchio conservatore. The Mule è un film autobiografico perché parla del rapporto malato che rischiamo tutti di avere con il nostro ego. Parla del bisogno, in alcuni casi al limite del patologico, che tutti abbiamo di venire accettati dalla società. Parla del nostro voler a tutti i costi sentirci qualcuno, nel cercare la nostra felicità nel nostro ombelico e nel compiacimento agli occhi degli altri, che siano essi degli spacciatori internazionali, degli appassionati di orchidee o degli sconosciuti che ci mettono un like su un social network.
In ogni film che valga veramente la pena di essere visto c’è una scena che potremmo definire frattale, un momento che mette in scena l’esatto significato che quella pellicola ha, probabilmente anche al di là della volontà del regista. Nel caso di The Mule, questa non è l’incedere lento dei passi del vecchio Earl, come forse vorrebbero i critici più anziani, né le sue tirate contro i giovani e le nuove tecnologia, come forse vorrebbero i critici più giovani. No, la scena più importante è un’altra, e per quanto riguarda la trama fine a se stessa probabilmente potrebbe anche non esserci. Ma nonostante ciò, è proprio quello il frattale del film, e riguarda tutti noi, vecchi o giovani che siamo, senza distinzione alcuna.
Siamo in Messico. È notte. Nel patio della villa del boss Laton, del cartello di Sinaloa, il giovane aspirante boss Julio è rimasto da solo dopo la serata di festa indetta per onorare El Tata, il vecchio mulo Earl, interpretato da Clint Eastwood. È seduto su un’amaca quando arriva Earl, che dopo essersi intrattenuto con due ragazze che insieme non arrivano alla metà dei suoi anni, si siede vicino a Julio e gli consiglia, fuori da ogni logica, di smettere di fare quel lavoro, di mollare il cartello. A quella follia, Julio gli risponde prima ridendo. Poi, facendosi più serio, dice a Earl che quella per lui è una famiglia, che fuori da lì lui non è nessuno e che è solo grazie a Laton che è diventato qualcuno. Earl non discute, accetta la risposta e se ne va, lasciando il giovane narcotrafficante con una battuta allusiva che lo lascia perplesso: «Torno in camera mia, torno dove anche io sono qualcuno».
E in questo che sta l’ultima — ma speriamo non l’ultima sul serio — lezione di Clint Eastwood: nel dimostrare che si può fare un film su quello che abbiamo vissuto in prima persona e su quello che la vita ci ha insegnato senza inquadrarci per due ore di piani sequenza in bianco e nero il nostro ombelico, ma soprattutto che, per essere felici nella vita, conta capire il prima possibile che la cosa più preziosa del mondo è anche l’unica che non si compra con i soldi e non si accumula con il lavoro: è il tempo, ed è l’unica ricchezza che abbiamo.