Il grillo parlanteIl paradosso italiano: aumenta l’occupazione, diminuisce il Pil

Risultato: diminuisce la produttività e cresce il numero di lavoratori poveri. È un dato che dovrebbe far ripensare l’intero sistema Italia. I robot non stanno facendo scomparire il lavoro, ma ne stanno riducendo il prezzo, in tutti i settori

Gli ultimi numeri dell’Istat e di Eurostat presentano un vero e proprio paradosso: in Italia aumentano i posti di lavoro e diminuisce il Pil. Non è disprezzabile il primo risultato, perché un lavoro è, comunque, lo strumento più potente per evitare esclusioni che possono disintegrare una società. E, tuttavia, i due numeri, messi insieme, significano che sta diminuendo – non solo in Italia – il “valore” (come avrebbe detto, forse, Marx) che le imprese riconoscono al lavoro. Che continua a diminuire la produttività – nonostante il fatto che l’esplosione dell’informazione ci dovrebbe rendere più efficienti – e che cresce, in maniera preoccupante il numero di chi, pur lavorando, è povero. Capire il paradosso e cosa farne, dovrebbe essere una delle preoccupazioni maggiori di governi che si trovano a dover gestire la mutazione – questo è il termine giusto – di società che stanno vivendo una rivoluzione tecnologica che sta cambiando tutto e che in Italia subiamo senza capirla.

Aumenta, dunque, secondo Istat, il numero di occupati raggiungendo un livello – 23 milioni e 250 mila – un po’ superiore a quello precedente la Grande Crisi del 2007: rispetto al momento di massima difficoltà (nel settembre 2013) sono stati creati, in cinque anni, un milione e duecentomila nuovi posti di lavoro. Il risultato assomiglia a certi miracoli promessi dal primo Berlusconi e dovrebbe essere maggiormente sottolineato da un governo che sull’economia trova il macigno che lo sta affondando. Risultato che però va qualificato fortemente per almeno quattro motivi diversi.

Innanzitutto il numero di occupati è sostanzialmente stazionario dal maggio del 2018, quando anzi fu fatto il record storico, con qualche migliaia di posti di lavori in più rispetto ad oggi, proprio mentre il nuovo governo si insediava. Da quel momento il numero di occupati rimane stabile, e ciò è già un bel risultato, visto che, nel frattempo, l’economia ha avuto una caduta piuttosto verticale.

In secondo luogo, però – e questo è un dato che dovrebbe far pensare l’intero sistema Italia e non solo l’ultimo ministro del Lavoro – risaliamo leggermente da livelli che restano, comunque, devastanti. Se consideriamo il tasso di occupazione (che è molto più significativo di quello di disoccupazione perché quest’ultimo è addolcito dal numero di coloro i quali, rassegnati, non cercano più lavoro), nell’Unione europea lavorano 67,6 persone su cento. Alla media europea arriva solo la virtuosa Provincia di Trento. In Lombardia il tasso di occupazione è del 67,3%, la media per l’Italia è del 58,7 (in Romania siamo al 64%, in Bulgaria al 69, in Germania e nel Regno Unito al 75). E, soprattutto, ci riesce il miracolo di conquistare tutti gli ultimi tre posti della classifica di 250 Regioni europee per tasso di occupazione, con Campania, Sicilia e Calabria dove lavorano quattro persone su dieci.

Sembra che in Italia e nel resto dell’Occidente ci stiamo accomodando all’idea di dover solo difenderci, con risorse sempre più scarse, da un futuro che ci ha scavalcato e che, neppure, proviamo a studiare.

C’è, poi, il dato su quello che la crisi ha fatto ai giovani e ne parlo nel libro che ho appena scritto (comparando la diversa capacità di adattamento dell’Europa e della Cina a quella che chiamo quinta rivoluzione industriale). Anche se sembra che abbiamo scritto quasi tutto su quanto questo sia un Paese per vecchi, c’è un numero – a proposito dell’occupazione – che pochi citano ed è tra i più impressionanti. Se consideriamo la fascia di età 25 – 30 anni (in modo da non tenere dentro gli studenti) e la confrontiamo con quella tra i 50 e i 59 anni (in maniera da non “sporcare” il dato con quelli che sono stati “costretti” in questi anni a rimanere al lavoro per effetto delle riforme dell’età pensionistica), nel 2007 il tasso di occupazione dei giovani era del 59%, mentre quello dei cinquantenni era molto inferiore, al 48%; oggi i numeri sono rovesciati, i cinquantenni scoppiano di lavoro (il loro tasso di occupazione medio è del 68% ed è superiore alla media europea), mentre il tasso di occupazione dei giovani appena laureati è crollato al 54%.

Ed è questo il numero che ci porta dritti nella verità più preoccupante. La rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo (o subendo) sta avendo un effetto molto diverso da quello che ci si aspettava: i robot non stanno facendo scomparire il lavoro, ma ne stanno riducendo il prezzo. In tutti i settori. A questa rivoluzione tecnologica radicale bisognerebbe rispondere investendo in formazione, in formazione permanente, trovando il modo di valorizzare gli anziani anche dopo l’età della pensione (e anzi questo concetto andrà, prima o poi, abolito). E, soprattutto, puntando sulla flessibilità e sulla creatività dei ragazzi. Questa è una cosa che non fa lo Stato, ma neppure le imprese italiane che, infatti, quasi sempre, preferiscono l’esperienza in un mondo nel quale cambia tutto.

Non c’è più una questione di sola contabilità pubblica o di un’ennesima riforma delle pensioni. Bisogna avere l’intelligenza di riprogettare il mondo del lavoro. Sembra, invece, che, in Italia e nel resto dell’Occidente, ci stiamo accomodando all’idea di dover solo difenderci, con risorse sempre più scarse, da un futuro che ci ha scavalcato e che, neppure, proviamo a studiare.

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