Un anno fa la Banca Mondiale pubblicava un report sul tema della migrazione forzata provocata dal cambiamento climatico. Il report ad oggi rappresenta “lo studio più completo che analizza il nesso fra impatto di fenomeni legati al cambiamento climatico nel lungo periodo, schemi migratori interni e crescita nelle tre aree mondiali in via di sviluppo: Africa Sub-Sahariana, Asia del Sud ed America Latina”.
In base alle previsioni, si stima che entro il 2050 saranno almeno 143 milioni le persone costrette a spostarsi all’interno del proprio paese per ragioni legate al cambiamento climatico. Di questi 143 milioni, oltre la metà – 86 milioni almeno – saranno in Africa Sub-sahariana, area che soffre ormai da decenni fenomeni quali siccità e carestie ricorrenti, desertificazione e degrado del suolo, scarsità di acqua e piogge insufficienti. I restanti 40 e 17 milioni sarebbero ripartiti rispettivamente fra Asia del Sud e America Latina.
Questi spostamenti peseranno ancora di più su aree già compromesse ed eroderanno le risorse di aree vulnerabili al clima, innescando un circolo vizioso cui di fatto assistiamo già oggi. Eppure, secondo i relatori, ci sarebbe una speranza: con azioni coraggiose e globali per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra queste cifre potrebbero ridursi dell’80%.
Ma, queste azioni coraggiose da chi dovrebbero arrivare se i leader mondiali sembrano ignorare deliberatamente la questione del cambiamento climatico? Se gli allarmi degli scienziati e gli appelli delle Nazioni Unite rimangono inascoltati dai decisori politici, come si tuteleranno i diritti di chi è costretto a migrare per ragioni climatiche?
Probabilmente non si tuteleranno. La questione dei rifugiati o migranti ambientali continua a dividere perfino sulla stessa denominazione e chi si oppone a parlare di “profughi” o “rifugiati” si rifà soprattutto alla Convenzione di Ginevra del 1951 dove manca qualsiasi tipo di riferimento alla questione climatica nella definizione dello status di rifugiato. Di contro, però, non si può negare che il cambiamento climatico inneschi sanguinosi conflitti per le risorse, tanto che sono le stesse Nazioni Uniti a riconoscere al peacekeeping una missione specifica relativa alle controversie sulle risorse.
Se già nel 2008 l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, riconosceva il nesso fra ambiente e migrazione, 10 anni dopo è stato accertato che nel Corno d’Africa e nella fascia saheliana le risorse sono una questione essenziale e che qui “una combinazione di conflitti e perdita di mezzi di sussistenza dovuta a una diminuzione delle terre produttive e bestiame continua a causare lo sfollamento”
Se già nel 2008 l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, riconosceva il nesso fra ambiente e migrazione, 10 anni dopo è stato accertato che nel Corno d’Africa e nella fascia saheliana le risorse sono una questione essenziale e che qui “una combinazione di conflitti e perdita di mezzi di sussistenza dovuta a una diminuzione delle terre produttive e bestiame continua a causare lo sfollamento”.
Il programma ambientale UNEP, inoltre, suggerisce che “negli ultimi 60 anni almeno il 40% dei conflitti infra-statali hanno un collegamento con le risorse naturali” e sottolinea come “dal 1990 almeno 18 conflitti violenti sono stati alimentati dallo sfruttamento delle risorse naturali” che in alcuni casi quei conflitti li hanno anche finanziati. Nel 1985, in un report delle Nazioni Unite, per la prima volta si usò l’espressione “rifugiato ambientale” che nel 1997 è stata inserita nel Glossario di Statistiche Ambientali in riferimento a “una persona sfollata per cause ambientali, in particolare degrado ambientale”. Ma in 34 anni non è stata ancora trovata una definizione condivisa per proteggere una realtà evidente e il dibattito è rimasto per lo più a livello teorico. Il risultato sono milioni di persone – in carne e ossa – prive di tutele.
Un ulteriore ostacolo sta nel fatto che gli stessi protagonisti di questa migrazione sono spesso inconsapevoli delle motivazioni profonde che li hanno spinti a partire. Intervistando dei minori soli non accompagnati in un centro di prima accoglienza ad Augusta, in Sicilia, fra marzo e giugno 2018 solo uno su oltre 30 era in grado di afferrare la questione. Valdes, camerunense di 17 anni, era il solo a comprendere i nessi fra l’escalation di violenze derivate da un fattore climatico come la scarsità di piogge o risorse idriche e l’instabilità delle comunità che vivevano intorno ad una diga sempre più asciutta. Gli altri, tutti provenienti dall’Africa sub-sahariana e di età compresa fra 15 e 17 anni, adducevano povertà estrema, insicurezza, ricerca di una scolarizzazione e di un lavoro fra le cause della propria partenza.
Benché molti sfollati non superino le frontiere nazionali, il rischio altissimo è che chi arriva in Europa sia liquidato come “migrante economico”, l’ambivalente calderone dove far confluire chiunque scappi da situazioni non immediatamente identificabili come guerre. Se si considerano i dati degli sbarchi in Italia nel 2019 fino al 3 marzo, ad esempio, il Bangladesh è il primo paese di origine per 57 persone su 262. Certamente in Bangladesh non è in corso nessun conflitto come in Siria o Yemen, ma bisogna tener presente l’impatto devastante dell’esodo Rohingya del 2017 e dei monsoni. Come si può dunque considerare un bengalese un semplice migrante economico che cerca un lavoro migliore di quello che troverebbe dietro casa? Come si può pensare che l’esodo di massa di Rohingya provenienti dal Myanmar non abbia ridotto allo stremo le risorse di un paese esposto a monsoni e cicloni sempre più devastanti? E questi fattori come vanno soppesati se manca perfino una definizione per indicare queste fattispecie?
Stando al report del Centro di Monitoraggio sullo Sfollamento Globale (IDMC) del 2018, nel 2017 dal Bangladesh su 952.000 sfollati solo 6000 casi erano riconducibili a situazioni di conflitto. Il resto era collegato alla categoria “disastri” che sarebbe stata responsabile del 61% degli sfollamenti globali avvenuti durante il 2017 in tutto il mondo
Stando al report del Centro di Monitoraggio sullo Sfollamento Globale (IDMC) del 2018, nel 2017 dal Bangladesh su 952.000 sfollati solo 6000 casi erano riconducibili a situazioni di conflitto. Il resto era collegato alla categoria “disastri” che sarebbe stata responsabile del 61% degli sfollamenti globali avvenuti durante il 2017 in tutto il mondo.
In generale, su oltre 18 milioni di sfollati interni “associati a disastri in 135 paesi”, sono stati proprio quelli legati a catastrofi naturali a far spostare più persone a causa di alluvioni, inondazioni e violente tempeste. Al di là delle specificità regionali, nel 2017 il dato fondamentale è stato che alla luce degli oltre 30 milioni di sfollati – vale a dire oltre 80.000 al giorno – quasi 19 milioni fossero stati provocati proprio da disastri e ciò testimonia l’inadeguatezza del Diritto Internazionale a rispondere alle attuali sfide migratorie.
Oggi, invece di continuare a barricarsi dietro categorie obsolete, bisognerebbe imparare a conoscere meglio il mondo in cui viviamo e a leggere adeguatamente i dati sulla migrazione globale. Così si comprenderebbero quali nuovi fattori entrano in gioco nella fuga delle persone e si anticiperebbero crisi ed emergenze umanitarie. Invece di dire “accogliamo chi viene dalla guerra e rimandiamo indietro gli altri”, chiediamoci cosa voglia dire “guerra”. E chi siano gli altri.
L’ultima emergenza umanitaria annunciata in ordine di tempo dalle Nazioni Unite, ad esempio, è stata in Burkina Faso dove si è registrato il record di sfollamento interno nella storia del paese con pesantissime conseguenze in termini di sicurezza alimentare. Questo Paese nel report dell’IDMC veniva citato insieme a Mali e Mozambico a causa dei gruppi islamisti che scatenavano numerosi sfollamenti, chiarendo che di fatto tali attacchi fossero “innanzitutto il prodotto di rivendicazioni socioeconomiche e politiche in aree colpite da eventi di lungo periodo”. Le risorse ritornano quindi, ancora una volta, come fattore che contemporaneamente scatena e aggrava i conflitti armati, costringendo allo sfollamento che può rappresentare la prima tappa di un viaggio potenzialmente più lungo.
Infine, visto che la popolazione di Africa Sub-Sahariana, Asia del Sud ed America Latina presa in considerazione dal report della Banca Mondiale corrisponde al 55% di quella globale, è facile capire che intervenire sui fattori ambientali che costringono a migrare sia essenziale per gli equilibri di tutto il pianeta e che la vuota propaganda di “aiutiamoli a casa loro” non servirà a fermare milioni di esseri umani in fuga.