Il bastone. Assunto di partenza: Il nome della rosa è uno dei rari fenomeni culturali in cui il film è meglio del libro. Il film di Jean-Jacques Annaud del 1986, dico, con il viso piacione e piacente di Sean Connery, che riduce in 126 minuti le 500 e passa pagine del romanzo si lascia vedere; la fiction di Giacomo Battiato ti straluna di noia; il libro di Eco, letto oggi, con l’eco marmorizzata di milioni di copie vendute, è come uno che va in pelliccia al mare a ferragosto. Effervescenza kitsch. Ci vuole pazienza da estremisti. Ecco un abbecedario di motivi per non leggere – e tanto meno rileggere – Il nome della rosa.
1. Il linguaggio. Eco alterna astrologiche parti descrittive – esempio: il capitolo “Dove Adso ammira il portale della chiesa” – ormai irritanti, a battibecchi dal sapore stantio. Andavano bene nei primi Ottanta, l’epoca di Dallas, il serial, al cui pubblico guarda Eco, impeccabile esegeta della comunicazione di massa, uno per cui Snoopy e l’Aquinate sono, sostanzialmente, la stessa cosa. Nomi. Nient’altro che l’esegesi del vuoto.
2. La banalità dell’eco. Pur Lancillotto del Gruppo 63, Eco tradisce l’avanguardismo – provate a leggere Il giuoco dell’oca di Edoardo Sanguineti o Partita di Antonio Porta – per una scrittura delittuosamente pop. Se ne sono accorti subito gli inglesi. The Times, 1983: “Si sfiorano argomenti ardui, ma la trama è pulita come in Conan Doyle o in Agatha Christie, con una vibrazione ironica che ricorda la serie di Padre Brown, ideata da Chesterton”.
3. L’ecolalico enciclopedismo. Eco parla di Catari e Dolciniani, di Bogomili e di Papi sanguinari, semplificando all’eccesso, secondo strategie sue, per una platea di lettori sostanzialmente ignoranti, ma a cui solletica il tema, per lo spazio residuo di una lettura da ombrellone o da sonno in arrivo. Lo leggi e ti senti intelligente. Ora che Wikipedia c’è, lo forzo enciclopedico è pedante, pedestre.
4. Lo sputtanamento delle fonti. Il nome della rosa è un indigesto pot-pourri di riferimenti abilmente sbertucciati. Esempio. Il manoscritto ritrovato – do you remember Manzoni? E poi. La biblioteca labirintica, infinita. Riproposizione grunge della Biblioteca di Babele di Borges – lo ammette pure Eco, “biblioteca più cieco non può che dare Borges, anche perché i debiti si pagano” –, ma Finzioni è del 1944. Inoltre. Sherlock Holmes. Soprattutto. I telefilm. Lo ha scritto bene Cesare Cavalleri, applicando al Pendolo di Foucault una rivelazione che sta bene al Nome della rosa: “Non è un romanzo, è un telefilm a puntate… è solo l’anticipo del telefilm che ne verrà tratto, e sarà un telefilm appassionante come un telefilm”. Eco non scrive per un lettore, ma per un telespettatore. Ora, ha rotto il telecomando al teleutente – ma chi la guarda più la tivù?
Eco intende la letteratura come un grande gioco dove l’unico senso è il diletto, l’unico metro è il mercato. Si legge come si assiste allo show: vince chi riempie il teatro. Per me la letteratura è altro, il godimento accade quando lo scrittore sfiletta ogni certezza. Se voglio l’intelligenza al potere leggo il Doctor Faustus di Thomas Mann, consapevole della mia piccolezza
5. L’eccidio dei corpi (e il vilipendio delle menti). Pagine 286 e seguenti dell’edizione ristampata su suggerimento televisivo del Nome della rosa. Adso s’unisce alla bella sconosciuta scompisciando versetti biblici (“Ed essa mi baciò con i baci della sua bocca…”) che mandano in vacca ogni spensieratezza erotica. Magari Eco sapesse narrare con profondità di ego il sesso. Non è così stupido: Eco vuole far vibrare le voglie e le piccole intelligenze mica scandalizzarle. Il suo anticlericalismo non è per i palati fini, è adatto ai fini – decadenti – di épater le bourgeois, in un tempo (il 1980) in cui la Chiesa, sotto Giovanni Paolo II, è già ‘riformata’ da un pezzo, dopo il Concilio Vaticano II. Insomma, Eco è l’eco della convenzione, scrive ciò che il lettore vuol sentirsi dire.
6. La sottigliezza delle menzogne. Guglielmo da Baskerville, alfiere del dubbio e indulgente verso le passioni carnali, dovrebbe incarnare i francescani – chi non ama i francescani, d’altronde? – contro i torvi domenicani, esemplificati dall’inquisitore Bernardo Gui. Eppure. La prima regola di Francesco – quella prediletta dal Santo, senza patti o mezze misure concordate con i frati e con i papi – non ammette altro amore che quello verso Dio (“Se un frate, punto dal demonio, è caduto in lussuria, si denudi dell’abito dell’Ordine, l’orrida colpa ha depredato ogni diritto, totalmente lo abbandoni e sia abbandonato dalla nostra religione”), stigmatizza gli intellettuali (“Quei religiosi che scansano lo spirito della scrittura perché s’interessano solo alle parole e vogliono interpretarle agli altri, sono uccisi dalla lettera”), non ammette cultura né bibliomania (“Sono leciti soltanto i libri utili a recitare l’ufficio… a chi è alieno dalla lettura non è concesso avere libri”) e neanche gli infedeli. A dispetto delle ecumeniche frasi del Guglielmo che fa eco a Eco (a proposito del Corano: “Un libro che contiene una saggezza diversa dalla nostra”), San Francesco prevede una norma per “i frati che… vogliono andare tra i saraceni e gli infedeli… ricordino che si sono donati, hanno sacrificato il corpo al Padrone Gesù Cristo, e per suo amore devono esporsi ai nemici, visibili e invisibili”.
7. L’idea di letteratura. Eco intende la letteratura come un grande gioco dove l’unico senso è il diletto, l’unico metro è il mercato. Si legge come si assiste allo show: vince chi riempie il teatro. Per me la letteratura è altro, il godimento accade quando lo scrittore sfiletta ogni certezza. Se voglio l’intelligenza al potere leggo il Doctor Faustus di Thomas Mann, consapevole della mia piccolezza.
8. Il finale. Tutto questo armamentario romanzesco per arrivare a una maccheronica risata, al monaco cieco e rintronato, vampirizzato dal secondo libro della Poetica di Aristotele, che fa l’orazione sul potere diabolico del riso. Che medioevale boiata. Quel satanasso di re Umberto è da quasi quarant’anni che si scompiscia dalle risate: ma come ho fatto a rimbambire così tanti lettori con un libro come questo?
Il suo cinismo è radioso quando riconosce che la scuola è la prigionia dell’intelletto, l’alcova dell’elettore perfetto, cioè inetto (“lo strumento più adeguato di una società autoritaria e repressiva, tesa a formare sudditi, uomini dal colletto bianco, folla solitaria, integrati di ogni categoria, esseri a una dimensione, mutanti regressivi pre-gutenberghiani…”)
La carota. L’Eco che parla di sé, l’eco di Eco, piuttosto, è straordinario. Le 576 pagine del Nome della rosa – ultima edizione Bompiani – si possono saltare per leggere le ultime 35, quelle che accolgono le Postille a “Il nome della rosa”, redatte, si legge, in origine, su Alfabeta nel 1983. Eco ha intelligenza anomala e arguzia giornalistica: le Postille sono un trattatello di teoria letteraria – il sale: scrivere è inventare rebus, solo che tra l’enigma e la Settimana Enigmistica s’incava la differenza che c’è tra Nabokov e Eco, per dire – dove avviene, finalmente, la verità.
“Dopo aver letto il manoscritto, un’amica mi disse che era stata colpita dal tono giornalistico del racconto, non da romanzo, ma da articolo di Espresso, così disse”. Onore al dato di fatto. Recentemente, mi sono trovato tra le mani un libro antico, era il 1972, stampa Guaraldi, I pampini bugiardi, in cui Umberto Eco sbugiardava il sistema scolastico italiano, sputtanando i manuali in uso alle scuole elementari. Il suo cinismo è radioso quando riconosce che la scuola è la prigionia dell’intelletto, l’alcova dell’elettore perfetto, cioè inetto (“lo strumento più adeguato di una società autoritaria e repressiva, tesa a formare sudditi, uomini dal colletto bianco, folla solitaria, integrati di ogni categoria, esseri a una dimensione, mutanti regressivi pre-gutenberghiani…”). Ed è affascinante scoprire che la risposta all’inettitudine educativa è sempre quella, la biblioteca infinita: “il problema è di fornire a bambini e insegnanti biblioteche scolastiche talmente ricche e una tale disponibilità alla realtà (quella dei giornali, della vita di tutti i giorni) che l’acquisizione di nozioni veramente utili avvenga attraverso una libera esplorazione del mondo, la lettura dei giornali, dei libri di avventure”.
Quanto al resto – cioè: al fatto letterario – la risposta è semplice. Dimenticare Il nome della rosa. Per chi ha una fascinazione verso il romanzo d’impasto religioso, si installi nel Quinto evangelio di Mario Pomilio (era il 1975, stampava Rusconi), per non uscirne più. Romanzo raro, tra i grandi per inventiva e cattedrale narrativa (un fibrillare proliferante di apocrifi, di testi eretici, smunti, bisunti dai secoli, desunti, da sussulti), riassunto qui: “Nella persistenza del mito d’un quinto evangelo inedito è in fondo l’emblema della condizione del cristiano e al limite il senso stesso della storia del Cristianesimo: la metafora, voglio dire, di quella delega della Parola in virtù della quale ciascuna generazione sembra come in attesa d’un supplemento di rivelazione, e non soltanto rilegge diversamente i Vangeli, ma, dal modo in cui ne adotta e ne esplica il messaggio, è come se a sua volta scrivesse il suo vangelo”.
Resto allibito, piuttosto, guardando la tremenda trafila del Premio Strega del 1981. Tutti s’inchinarono all’Eco nazionale. Buon ultimo, tra i finalisti, Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, un piccolo classico, altro che Il nome della rosa. Assaporandone l’incipit (“O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto”) mi è ancora più chiaro il vizio atavico del piccolo mondo letterario italiano.