Alketa Llani, 36 anni, nata a Durazzo in Albania, in Italia dal 1996, laurea in Comunicazione interculturale, un master in Gran Bretagna, un altro master in Diversity management, lavora presso un importante vettore turistico dove si occupa dei mercati emergenti. Giura che la sua vita oramai è qui, che non tornerebbe più indietro e che alla fine bisogna stare attenti quando si parla di razzismo:
Il razzismo è un problema di classe, non di diversità culturale. La cosa che la gente teme di più non è il diverso colore della pelle ma la povertà. A provocare tanto odio è il messaggio che è passato, secondo cui immigrazione è per forza immissione di povertà. E come la povertà possa essere contagiosa. Se su un mezzo pubblico sale un africano in giacca e cravatta che al telefonino parla magari di affari, nessuno lo guarda male e la gente gli sta vicino come starebbe vicino a chiunque. Se lo stesso africano fosse vestito male, ci sarebbe un atteggiamento molto diverso. È una cosa che conosco bene perché l’ho provata anche sulla mia pelle. Un giorno il padre di un ragazzo con cui sono uscita per un po’ di anni mi disse: “Vedi Alketa, il fatto non è che tu sei albanese. Se tu fossi la figlia di Sali Berisha, il primo ministro fino al 2013, non ci sarebbe alcun problema”.
Alketa Llani, come è arrivata in Italia?
«Col gommone, come tutti gli albanesi. Anzi col motoscafo. Era il 1996. Avevo 14 anni. Una notte d’estate per fortuna. Perchè quando eravamo ancora in mare i trafficanti ci hanno buttati in acqua perchè si stava avvicinando una motovedetta della Guardia costiera. E in quegli anni non si usavano ancora i giubbotti di salvataggio».
Perché proprio in Italia? Il Paese più vicino, dall’altra parte dell’Adriatico?
«Mio padre lavorava come saldatore al porto di Durazzo. Era un buon lavoro. Pochi anni prima era caduto il comunismo. Con il libero mercato molti aprivano proprie attività. Chi aveva un negozio chiedeva a mio padre di occuparsi dei serramenti. Ma tutto questo non poteva bastare. La situazione era troppo instabile. I miei genitori non vedevano un futuro in Albania né per me né per mio fratello che ha otto anni di meno. Decisero così di venire in Italia dove abitavano già tutte le mie zie, che ancora oggi vivono a Taranto».