Serenissima malataVenezia è in crisi nera: ecco il piano per farla rinascere

Troppo turismo l’ha messa in ginocchio, e proprio mentre la città approva il biglietto di ingresso, un report la mette fuori dalla top-40 per attrattiva. Ma Venezia può ancora rinascere, se ha una strategia. Ecco la possibile ricetta in cinque punti

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Venezia: poca attrattiva, troppo turismo, e un processo di trasformazione forzata in atto. Venezia. Povera città. Negli ultimi mesi sembra proprio che stia attirando su di sé una serie di attenzioni non proprio positive.

Il recente report di nomisma ha posizionato la città fuori dalla top-40 per attrattiva, proprio mentre l’amministrazione comunale approvava la proposta di “biglietto di ingresso” per entrare in città. E nel frattempo, secondo Wired, la previsione di bandi di gara europei (senza prelazione) per l’affitto dei locali commerciali statali in Piazza San Marco potrebbe cambiare il volto storico della città.

Non è un momento semplice. Insomma. L’amara verità, tuttavia, è che tutte queste condizioni non sono il frutto di un cataclisma inatteso. Ripetiamo da decenni che la città si sta svuotando, che si sta depersonalizzando e che il turismo di massa presenta dei rischi che vanno quantomeno mitigati.

A fronte di questi pericoli concreti, tuttavia, sono sorti convegni, idee, tavole rotonde e stati generali, ma nessuna strategia di medio periodo. Nessuna attività programmatica che riuscisse a fornire una nuova visione della città, o quantomeno proporre una soluzione ai problemi già noti.

È il problema della democrazia spicciola (ma anche il problema della differenza tra governance e management, se vogliamo): per far fronte a problemi che si potranno manifestare nel tempo, gli attuali decisori politici dovrebbero adottare delle misure a volte poco piacevoli, che agirebbero negativamente sulla percezione del proprio operato, e così si attende che il problema sia emergenza.

Non è tutta colpa dei decisori politici, tuttavia. È colpa anche e soprattutto dei cittadini. Se i politici attendono l’emergenza è perché attendono che un problema divenga prioritario per la cittadinanza. Perché gli elettori, in fondo, apprezzano le misure drastiche che risolvono un problema percepito, mentre tendono ad essere meno favorevoli a posizioni “protettive” per evitare che il problema si presenti.

Ad oggi, però, importa poco capire perché si sia arrivati all’emergenza. Quel che conta è che adesso la città può finalmente muovere delle azioni strategiche, per fare in modo che il problema si risolva nel tempo. Ci sono infatti tutte le condizioni per un piano strategico cittadino, che sia in grado di presentare alla cittadinanza e al mondo una visione di medio periodo per la città. Non soluzioni tampone che non fanno altro che generare ulteriori problemi, ma visioni condivise che possano aiutare ad amministrare il territorio.

È il problema della democrazia spicciola (ma anche il problema della differenza tra governance e management, se vogliamo): per far fronte a problemi che si potranno manifestare nel tempo, gli attuali decisori politici dovrebbero adottare delle misure a volte poco piacevoli, che agirebbero negativamente sulla percezione del proprio operato, e così si attende che il problema sia emergenza

Per farlo è però necessario avviare un lavoro concreto, fatto di attività di programmazione e di strategia che non si traducano in documenti che giacciono per sempre nei cassetti come i buoni propositi di inizio anno. Più facile a dirsi che a farsi, è vero. Ma basta un appello a quella grande capacità di intraprendenza che la città ha sempre avuto e al rispetto del proprio territorio.

Punto primo: fare in modo che tutte le parti politiche si impegnino a rispettare il piano strategico (altrimenti parliamo del nulla).

Punto secondo: definire una visione di medio periodo per la città. Stabilire un posizionamento strategico con riferimento al settore produttivo, al commercio, all’artigianato, alla cultura, ai servizi ai cittadini, alla qualità della vita e, infine, al turismo.

Punto terzo: mettere mano a tutti gli strumenti che le amministrazioni hanno a disposizione e favorire (anzi, incentivare) la partecipazione di privati interessati ad un investimento di lungo periodo (con lunghi periodi di payback, così da evitare operazioni di mera natura finanziaria).

Punto quarto: avviare un confronto con la città e con i cittadini. Fare in modo che tutte le decisioni prese vengano adeguatamente condivise. E creare meccanismi di “protezione” del piano, prevedendo iter precisi e condivisi per la definizione di modifiche allo stesso.

Punto quinto: fornire ai cittadini strumenti attraverso i quali essi possono partecipare in misura concreta al perseguimento degli obiettivi comuni e, al contempo, indicatori e criteri di valutazione attraverso i quali gli stessi cittadini possano verificare lo stato di avanzamento dei lavori.

Il discorso è, ovviamente, più complesso di una ricetta in cinque punti. Prevede una grande attività tecnica e politica, di conoscenza precisa degli strumenti di governo del territorio e di una forte capacità di creare alleanze tra i vari soggetti pubblici che dovrebbero governare un processo di questo tipo (Stato-Regione-Comune). Del resto, non si può cambiare un’intera città da un articolo di due pagine. Sarebbe però bastato soltanto raggiungere il primo punto per trovarci oggi in condizioni diverse.