C’era una volta il sogno europeo, o perlomeno quello dei popoli più poveri del continente, usciti da decenni di oppressione e miseria: raggiungere il benessere e la civiltà dei mitizzati Paesi nordici ed occidentali, la Germania, i Paesi Bassi, la Svezia e via dicendo. Persino l’Italia. Ed è il sogno europeo che ha portato i Paesi dell’Est dopo il 1989 a inseguire l’integrazione europea sperando che potesse essere realmente tale, ovvero che vi fosse una progressiva crescita dei livelli di reddito fino a quello dei paesi fondatori.
Si arrivò nel 2004 all’ingresso nella Ue di ben 10 Paesi in una volta, quasi tutti ex comunisti. 15 anni dopo proprio questi popoli appaiono tra i più disincantati e delusi dall’Europa, prime prede del populismo e del nazionalismo, della retorica delle piccole patrie da far risorgere. Tutto questo malgrado decine di miliardi di euro siano confluiti da Ovest a Est in questi anni grazie ai fondi strutturali europei, e migliaia di imprese abbiano investito e si siano installate in Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania, ecc. E nonostante questi Paesi abbiano tassi di crescita da fa fare salti di gioia a qualsiasi ministro dell’economia italiano.
Il problema è che ciò che più interessa al cittadino medio, gli stipendi, non si sono per nulla avvicinati a quelli dei paesi europei più ricchi, anzi. La crescita ha portato i salari orari medi polacchi, per esempio, da 4,1 euro nel 2004 a 8,3 nel 2018 o quelli ungheresi da 3,8 a 7,3, ma la differenza rispetto a quelli medi europei o a quelli dei tedeschi non è calata, anzi.
Dal 2004 in poi, gli stipendi sono cresciuti maggiormente proprio nei paesi più ricchi. In Islanda (che peraltro non fa parte dell’Ue), Danimarca, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi: i soliti, insomma.
In fondo alla classifica, assieme ai cosiddetti “Pigs” come Grecia, Portogallo, Italia, troviamo i Paesi “emergenti” dell’Est, come Ungheria, Bulgaria, Croazia, Polonia, Cechia, dove gli aumenti sono stati di 3-5 euro l’ora, contro quelli di 10 euro e più registrati negli Stati già ricchi.
Naturalmente, se dovessimo guardare all’andamento dei salari in termini percentuali, a registrare i maggiori progressi sarebbero i Paesi dell’Est. Con Bulgaria, Lettonia, Estonia in testa. In quasi tutti i casi c’è stato un raddoppio delle paghe. E la differenza con quanto accaduto in Italia e in altri Paesi mediterranei è evidentissima.
Tuttavia, a differenza di quanto accade con il Pil, non è la variazione percentuale quella che il cittadino medio cerca nello stipendio, ma il suo valore assoluto.
Nella società globalizzata, in cui molti beni hanno in realtà prezzi poco differenti da Paese a Paese (pensiamo alle auto, ai viaggi aerei, alla tecnologia), soprattutto per i cittadini di mezza età, quelli che hanno vissuto l’epoca della speranza di una nuova era di benessere e lavorano duramente, molte più ore dei corrispettivi tedeschi o francesi, è frustrante constatare che i salari siano rimasti al di sotto di quelli di altri paesi. Esattamente come accadeva 15 anni fa.
Perché se uno stipendio polacco o ungherese potrà essere raddoppiato, passando da 400 a 800 euro, quello di un tedesco o di un olandese nello stesso periodo potrebbe essere cresciuto da 2000 a 2600 euro, a fronte di un aumento del costo della vita più basso.
La realtà è che, rispetto alla media europea, gli stipendi dei Paesi più poveri si sono allontanati in valore assoluto rispetto a quelli dei Paesi più ricchi. Nel 2004, in Polonia il salario orario era di 11,1 euro più basso rispetto alla media europea. Nel 2018 è sceso ancora: -12,4 euro. In Ungheria, invece, da -10,8 euro si è passati a -13,6. E così un po’ dappertutto, a Est e Sud. L’opposto di quanto accaduto ai cittadini di altri paesi, in particolare quelli nordici, che invece hanno incrementato il proprio vantaggio sull’europeo medio in termini salariali.
Pochi i casi di quei popoli che nel 2004 si trovavano sopra la media europea e per i quali il divario si è ridotto in modo significativo. Tra questi Regno Unito, Francia, e Italia, che anzi è passata a essere tra i Paesi con stipendi più bassi della media.
E infatti è solo nei confronti dell’Italia, tra i Paesi un tempo ambiti dagli emigranti dall’Europa Orientale, che c’è stato una sorta di avvicinamento da parte di alcuni Stati dell’Est.
Tra il 2004 e il 2018, la distanza tra i nostri salari e quelli degli sloveni, dei cechi, degli estoni, degli slovacchi, dei lettoni, si è ridotta. Ma ci sono voluti decenni di declino italiano e di boom economico (forse non replicabile) a Est perchè questo succedesse, e tra l’altro solo in parte. Non è infatti accaduto a rumeni, ungheresi o polacchi, per esempio.
Questo ci dice quanto è grave la situazione economica dell’Italia, da un lato, e dall’altro quanto la crescita del Pil spesso non sia decisiva per portare il benessere sognato, forse in maniera troppo facile, nell’epoca che va dalla caduta del Muro di Berlino e la grande recessione del 2008/09, quando si pensava che la globalizzazione e la crescita dell’economia fossero più lineari, facili e ineluttabili.
E invece no, i salari sono cresciuti in valore assoluto tra i 2 e i 4 euro, sia laddove il Pil è cresciuto di più negli ultimi anni, sia dove è stato quasi stagnante.
Questo vuol dire che l’Europa è inutile? No, i Paesi dell’Est rimangono un esempio di integrazione. La loro uscita dal comunismo e l’ingresso nel mercato unico ha significato per molti dei loro abitanti opportunità che non avrebbero potuto mai sognare. E la crescita delle economie, se non si è tradotta in salari analoghi a quelli tedeschi e nemmeno a quelli italiani, ha però significato un aumento dell’occupazione, spesso di qualità, in grandi imprese internazionali che lì hanno investito, grazie all’appartenenza alla Ue, oltre che la costruzione di infrastrutture prima assenti.
Tuttavia sono aumentate le disuguaglianze, innanzitutto all’interno dei Paesi dove solo le capitali e poche altre grandi città hanno goduto dei vantaggi dell’integrazione nell’economia europea e mondiale e dell’arrivo delle multinazionali.
L’Europa, occorre dirlo, non è stata capace di intervenire in modo più deciso, con una funzione perequativa, come farebbe un vero Stato, un po’ per gli orgogli degli Stati Nazionali, un po’ per una fede ingenua negli automatismi del mercato. Le frustrazioni di chi non ha raggiunto il benessere che ci si era prefigurati potrebbero spingere alla fine del sogno europeo. In nome di un sogno nazionalista che sa di illusione, ma è più confortevole, perchè sa di antico.
In fondo anche i Paesi, come gli uomini, se non vedono progressi, sono più portati a chiudersi nelle proprie comfort zone piuttosto che a lanciarsi in nuove sfide.