TEL AVIV – Alla fine ce l’ha fatta ancora. Benjamin Netanyahu, 69 anni, leader assertivo e pragmatico del Likud, sembra avere tutto per assicurarsi il quinto mandato diventando, così, il primo ministro più longevo della storia di Israele. Perché, è vero, ha ottenuto lo stesso numero di seggi, ben 35, del partito centrista Blu e Bianco del rivale Benny Gantz, il più credibile schieramento che lo ha sfidato negli ultimi anni, ma il blocco di destra è dato in vantaggio di 10 punti rispetto alla sinistra: 65 a 55 sui 120 seggi totali della Knesset, il Parlamento israeliano. I sondaggi, però, spiegano bene che il voto di martedì, in quella che in realtà è stata una gara a due, un testa a testa tra Bibi e Gantz, è stato solo un voto di facciata o di protesta. In una delle più contenziose partite elettorali nella recente storia di Israele, l’eccessiva personalizzazione del discorso politico ha ridotto le elezioni, di fatto, a un referendum popolare, portando gli elettori a riflettere attorno a una sola questione: Benjamin Netanyahu.
L’uomo che domina da più di dieci anni la politica israeliana ha trasformato il voto in una questione di sopravvivenza personal-nazionale. In bilico tra incertezza e difficoltà, nel gorgo degli insulti più disparati, ha lottato per confermare nuovamente la propria leadership. Lo ha fatto aggrappandosi a microfoni e a esortazioni concitate: «Se non volete svegliarvi con Lapid primo ministro di un governo di sinistra, uscite dall’acqua e andate a votare», ha urlato ai bagnanti sulla spiaggia di Poleg, vicino Netanya, tradizionale roccaforte di destra nel nord del Paese. Lo ha fatto chiamando a raccolta i fedelissimi, quelli che «Netanyahu a tutti i costi», quelli a cui non importa se il loro Bibi è inghiottito dagli scandali e accusato di corruzione, frode, truffa, tangenti e scambio di favori, perché, prima di tutto, la lealtà verso il loro leader. Lo ha fatto formando alleanze con la destra più radicale. Stringendo la mano ai sovranisti e ai suprematisti di Otzma Yehudit – Potere ebraico erede del rabbino Meir Kahane – ai nazionalisti di Zehut capeggiati da Moshe Feiglin, e agli annessionisti di Hayamin Hehadash – la Nuova Destra – di Naftali Bennett e Ayelet Shaked, che però, ad oggi, non hanno superato la soglia di sbarramento del 3,25%.
Ma il blocco ideologico e politico di Netanyahu può fare affidamento su una solida maggioranza di destra formata da quei partiti che prediligono una dottrina o una fede, preferiscono il dogma alla ragione, inseguono la persuasione più che il convincimento
Ma il blocco ideologico e politico di Netanyahu può fare affidamento su una solida maggioranza di destra formata da quei partiti che prediligono una dottrina o una fede, preferiscono il dogma alla ragione, inseguono la persuasione più che il convincimento. Come Shas e United Torah Judaism, i due partiti religiosi ortodossi che hanno conquistato 8 seggi ciascuno, Yisrael Beiteinu dell’ex Ministro della Difesa Avigdor Lieberman e l’Unione della Destra di Rafi Peretz, entrambi con 5 seggi vinti, e il partito centrista, ma vicino al Likud, Kulanu di Moshe Kahlon, 4 seggi ottenuti. E poi, “King Bibi” è un perfetto animale politico, un maestro nel districarsi tra i nodi degli imprevisti delle ragion di stato, uno stratega nella gestione del tempo. A due settimane dal voto, per guadagnare terreno, ha chiamato i potenti del mondo mostrando al suo popolo che lui, nel campo della diplomazia internazionale, è il migliore. Donald Trump ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan ed è pronto ad appoggiare l’annessione di una parte della Cisgiordania, occupata da Israele dal 1967. Vladimir Putin, invece, gli ha consegnato i resti di Zacharia Baumel, un soldato ucciso 37 anni fa in Siria. Un gesto forte, simbolico. Un segnale di appoggio politico diretto a un popolo che non dimentica ed è sempre stato pronto al sacrificio. A Gerusalemme ora c’è l’ambasciata americana, i russi che sono a Damasco dialogano senza ostilità. Perché diffidare della politica del controllo?
Eppure il cambiamento, la vera rivelazione politica, parla la lingua di Benny Gantz, 59 anni, ex capo dell’esercito israeliano, oggi alla guida di Blu e Bianco, una forza politica centrista nata a febbraio dall’alleanza con Moshe Ya’alon e Gabi Ashkenazi, ex capi di Stato Maggiore, e Yair Lapid, ex giornalista televisivo ed ex ministro delle Finanze. É l’esperienza militare, la schiettezza, la promessa di ricomporre le fratture di un Paese che Benjamin Netanyahu ha diviso e frammentato, «ritrovando la solidarietà e obiettivi comuni», come ha ribadito Gantz nei comizi. È l’inesperienza, l’impaccio davanti alle telecamere, la sbavatura del suo inglese. È la risposta al desiderio di una parte del pubblico israeliano per qualcosa di diverso. È «l’unico modo» – così Lapid ha esortato gli elettori – «per sostituire Netanyahu».
Ma l’unico modo per battere Bibi non era diventare il partito più grande, ma portare gli elettori di centro-destra a votare per il centro-sinistra, perché i 35 seggi vinti da Blue e Bianco – complice il crollo del Labour, partito da sempre una delle anime del Paese, che ha vinto appena 6 seggi, meno della metà rispetto alla Knesset uscente, di Meretz, solo 4, e lo sgretolamento dei partiti arabi – non sono stati sufficienti per riscrivere la Storia. Nell’ottava elezione israeliana in cui nessun partito ha ricevuto un terzo dei voti – i gruppi politici attenti alla difesa della propria fazione, ridondanti nella delegittimazione dell’avversario e poco impegnati nei contenuti – l’unica certezza è che la metà degli israeliani continua a non essere convinta né da Netanyahu né da Gantz. Un terremoto politico insufficiente?