Il libroFar crescere l’economia salvando il pianeta: si può fare (e un libro spiega come)

In Sardegna i biotecnologi hanno scoperto che l’olio estratto dal cardo può essere convertito in un gran numero di monomeri e intermedi che sono alla base di numerosi prodotti industriali, dagli pneumatici fino ai cosmetici. Insomma, la soluzione è intorno a noi e si chiama Natura

Pubblichiamo un estratto dal libro “Grande mondo piccolo pianeta” di Johan Rockstrom e Mattias Klum (Edizione Ambiente).

Capitolo 9: Soluzioni dalla natura

Guardatevi intorno. Ovunque voi siate, in auto, su un aereo, in ufficio, sdraiati sul divano in soggiorno. Tutto quello che vedete viene dalla natura. Qualsiasi materiale, dalle terre rare ai tessuti, dalla plastica al legno, è stato estratto dalla biosfera. Il cibo che mangiamo, i modi in cui ci raffreschiamo e ci riscaldiamo, persino l’ultimo modello di smartphone che abbiamo comprato (che contiene in media più di 50 metalli diversi): tutto arriva da servizi forniti dalla natura. Non dovrebbe quindi essere una sorpresa che le innovazioni e le soluzioni ai problemi che abbiamo di fronte sempre più vengono dalla natura. Consideriamo per esempio l’umile cardo.

In Sardegna, dove questa infestante piena di spine ha invaso i campi di grano abbandonati, i biotecnologi hanno fatto delle scoperte sorprendenti. L’olio estratto dal cardo (Cynara cardunculus) può essere convertito in un gran numero di monomeri e intermedi che sono alla base di numerosi prodotti industriali, dagli pneumatici fino ai lubrificanti e i cosmetici. Nel 2011 è stato chiuso uno degli impianti petrolchimici più inquinanti della regione, e si è deciso di trasformarlo in una bioraffineria. Invece di usare i combustili fossili, la raffineria di Porto Torres, uno dei poli della chimica verde più avanzati del mondo, dal gennaio 2014 usa cardi selvatici e coltivati per realizzare prodotti per l’industria delle bioplastiche. La tempistica era azzeccata. L’Italia aveva appena approvato una legge che imponeva di sostituire gli shopper di plastica derivata da combustibili fossili con sacchetti biodegradabili, una mossa che poteva trasformare un’impresa basata un una piantina viola in una tecnologia esponenziale.

Gli italiani, in effetti, usano più di 300 sacchetti all’anno per persona, per un totale superiore ai 20 miliardi. Eliminando i sacchetti di plastica, l’Italia spera di ridurre la quantità di rifiuti plastici e i consumi di energia fossile, e di diminuire il deflusso di scorie di plastica negli oceani. Questa normativa lungimirante rappresenterà di certo un incentivo per l’industria della bioplastica avanzata.

Sono sempre di più le innovazioni basate sulla natura, dall’uso dei bachi da seta per tessere fibre ultraresistenti da impiegare sulle barche a vela fino all’impiego del veleno estratto dai serpenti per curare le malattie cardiache

Sono sempre di più le innovazioni basate sulla natura, dall’uso dei bachi da seta per tessere fibre ultraresistenti da impiegare sulle barche a vela fino all’impiego del veleno estratto dai serpenti per curare le malattie cardiache. Inoltre, le tecnologie ispirate alla natura possono essere usate per ridurre drasticamente gli impatti sull’ambiente, dalle biotecnologie per le modificazioni genetiche nelle piante fino alle auto elettriche e le case passive. I concetti della biomimesi vengono applicati anche da quelle aziende che adottano modelli di business circolari o che riducono i rifiuti, riciclando per esempio lattine di alluminio.

Abbiamo bisogno di innovazioni sostanziali in almeno tre settori – tecnologie esponenziali dalla natura, innovazioni per ridurre gli impatti, e cambiamenti sistemici più ampi – per gestire una crescita sostenibile nell’ambito dei confini planetari. Molte delle soluzioni sono disponibili, seppure a una scala ancora inadeguata. Prendiamo per esempio l’eolico e il solare. Anche se sono già economicamente competitivi rispetto alle fonti fossili per quanto riguarda la produzione di elettricità e calore, coprono solo il 2% degli usi globali di energia. La buona notizia è che si sta verificando una crescita esponenziale dell’eolico e del solare in molte aree del mondo. In Germania, la quarta economia del pianeta, nel 2013 le rinnovabili hanno fornito un quarto di tutta l’elettricità, di cui il 12-13% da eolico e solare. I progressi degli ultimi decenni hanno aperto nuove prospettive nel settore dell’energia solare.

Negli anni Novanta l’ostacolo più grande era il costo dei pannelli solari. Oggi, grazie al rapido sviluppo di tecnologie poco costose basate sul silicio, abbiamo superato questo ostacolo. La vera sfida, come spiega Marika Edoff, che insegna ingegneria alla Uppsala University, è quella di individuare delle modalità per accumulare energia che siano economicamente competitive. Per molti anni lo sviluppo tecnologico è stato guidato da aziende tedesche, spagnole e italiane, ma oggi i progressi arrivano da Cina, Giappone e Brasile. In Africa, dove spesso mancano le infrastrutture per il trasporto e la distribuzione dell’energia elettrica, molti paesi hanno scelto di usare i pannelli solari per produrre l’elettricità di cui hanno bisogno.

Meno conosciute, e ancor meno sfruttate, sono le altre opportunità che ci vengono offerte dalla natura e che, al fine di generare abbondanza nell’ambito dei confini planetari, possono essere ancora più efficaci dei modelli di economia circolare più ambiziosi. Come sottolineato da Gunter Pauli, che descrive le soluzioni basate sulla natura in Blue Economy, anche migliorando un sistema al 90% insostenibile rimarrebbe comunque un 10% che non funziona. Se però per esempio si passasse da un materiale come la plastica, derivato dai combustibili fossili, a un prodotto realizzato con un materiale biologico come il bambù, si passerebbe da una situazione che rimane sempre più o meno buona a una al 100% positiva. Il benessere aumenta, la crescita pure. Queste soluzioni di rottura potrebbero trasformare le nostre società, più o meno insostenibili, in realtà completamente sostenibili.

Sono in corso diversi esperimenti pilota per produrre indumenti non solo da cotone e lana riciclati, ma anche da materiali di scarto da post-consumo, come le bottiglie di Pet (polietilene tereftalato) o altre plastiche riciclate

IMPARARE AD AMARE LE LARVE… E I SERPENTI

Tra le tante tecnologie basate sulla natura citate da Gunter Pauli in Blue Economy, una delle più interessanti è quella che riguarda le tanto disprezzate larve. A mano a mano che cresce la quantità di carne che mangiamo, cresce anche la pressione che esercitiamo sull’acqua, sui suoli, sui nutrienti, la biodiversità e il clima. In effetti, i nostri consumi di carne sono una delle principali ragioni per cui l’agricoltura minaccia i confini planetari. Il nostro appetito per la carne genera poi una grande quantità di rifiuti. Almeno la metà in peso degli animali che vengono macellati viene scartata – in Europa si arriva a 150 chilogrammi per persona. Tuttavia, alcuni progetti innovativi sfruttano le larve per decomporre i rifiuti animali. In questo modo, dalle larve si ricavano delle proteine a basso costo che vengono poi utilizzate come mangime per gli animali. Analogamente, molti studi indicano che le larve sono un sistema efficace per rimuovere i tessuti morti dalle ferite, e che hanno il potenziale di stimolare la crescita cellulare.

Gli allevamenti di larve, un esempio di una tecnologia sostenibile ed esponenziale, potrebbero aprire la strada a nuovi modi di gestire i rifiuti e le cure mediche. Se già non lo facevamo prima, stiamo anche imparando ad amare i serpenti. I farmaci per abbassare la pressione sanguigna sono tra i più usati nei paesi occidentali. Molti inibiscono l’enzima convertitore dell’angiotensina (dall’inglese Angiotensin Converting Enzyme, ACE) impedendogli la vasocostrizione che porta all’ipertensione. Quello che in pochi sanno è che l’ACE-inibitore più diffuso è il Captopril, che è stato messo a punto partendo da un componente del veleno di una vipera brasiliana, il ferro di lancia (Bothrops jararaca). I ricercatori si sono infatti accorti che le prede del serpente, uccelli e piccoli mammiferi, cadevano al suolo a causa di un crollo repentino della pressione sanguigna. Il componente naturalmente presente nel veleno, un peptide chiamato teprotide, non poteva essere usato tal quale come medicinale.

Tuttavia, grazie a una serie di ricerche particolarmente creative è stato possibile individuare il principio attivo del peptide, e alla fine si è arrivati al Captopril. Tra i settori industriali che hanno adottato modelli di business ispirati alla natura spicca quello dell’abbigliamento. Per anni, le industrie tessili hanno cercato di incrementare la sostenibilità delle proprie attività, utilizzando cotone coltivato in modo ecologico e riducendo l’inquinamento generato dai vari coloranti chimici. Tuttavia, molte aziende di grandi dimensioni, come la svedese H&M, hanno capito che non era abbastanza, e che l’obiettivo finale doveva essere quello di chiudere il ciclo dei flussi dei tessuti, riciclando le fibre tessili.

Sono in corso diversi esperimenti pilota per produrre indumenti non solo da cotone e lana riciclati, ma anche da materiali di scarto da post-consumo, come le bottiglie di Pet (polietilene tereftalato) o altre plastiche riciclate. Anche se per adesso i numeri sono esigui – solo il 20% dei tessuti può essere riciclato con le tecnologie esistenti – si tratta chiaramente di un’area in cui le scelte dei consumatori possono innescare rapidi cambiamenti, via via che diventa sempre meno accettabile che colossali quantità di vecchi vestiti vadano a finire in discarica.

Ci sono aziende come la Puma, il marchio tedesco di scarpe e abbigliamento sportivo, che ormai riconoscono in modo esplicito che i loro affari dipendono dal capitale naturale e dai servizi degli ecosistemi

Nell’ambito di un’altra tendenza che fa ben sperare, ci sono aziende come la Puma, il marchio tedesco di scarpe e abbigliamento sportivo, che ormai riconoscono in modo esplicito che i loro affari dipendono dal capitale naturale e dai servizi degli ecosistemi. Nel 2011, Jochen Zeitz, presidente della Puma, lanciò il programma Environmental Profit and Loss (EP&L). Zeitz spiegò che si trattava di una strategia fondamentale per condividere le informazioni con i clienti della Puma.

Adesso, tutti i prodotti della Puma, dalle t-shirt fino alle scarpe, hanno un’etichetta che riporta i costi ambientali della loro produzione (nel caso delle t-shirt, la natura sussidia il 20% del loro prezzo finale). In questo modo, l’azienda ha creato una piattaforma per coinvolgere i propri clienti nell’impegno per la sostenibilità. In seguito, Zeitz ha sottolineato che l’EP&L guida anche la strategia di business di Puma, che cerca di individuare gli investimenti più sostenibili e redditizi, come l’impiego di materiali riciclati per le scarpe. Jochen Zeitz e Richard Branson, fondatore del gruppo Virgin, della Carbon War Room e dell’Elders Network (un’organizzazione internazionale di personaggi pubblici anziani che lavorano per la pace e i diritti umani, ndT), hanno anche creato il B-Team, che raccoglie una dozzina di dirigenti d’azienda come Paul Polman di Unilever e Ratan Tata di Tata Group.

La cosa interessante del B-Team è la convinzione che “i leader del business globale devono lavorare assieme per accrescere il benessere del pianeta e dei suoi abitanti”. Secondo i membri del B-Team, se il settore degli affari vuole crescere deve operare in questo modo. È una posizione in linea con quello che emerge da molti settori scientifici, ed è alla base della trasformazione del modo di pensare che sta al centro di questo libro. Il lancio dell’EP&L e di altre iniziative simili sono tutti passi nella direzione giusta.

Una ricerca condotta qualche tempo fa dal Boston Consulting Group (BCG) ha dimostrato che degli investimenti per la sostenibilità nel Mar Baltico potrebbero creare da qui al 2030 550.000 nuovi posti di lavoro e 32 miliardi di euro di valore aggiunto

CONNETTERE LA VISIONE CON LE SOLUZIONI

Il Mar Baltico è malato. In effetti, potrebbe anche essere il mare interno più malato del mondo. Nel 1989, a causa degli eccessi di azoto e fosforo derivanti delle attività agricole, e dopo decenni di sversamenti di sostanze tossiche dalle città e le industrie, il Baltico ha superato un punto di svolta. Incidentalmente, secondo noi proprio il 1989 è stato l’anno in cui siamo passati dall’essere un piccolo mondo su un grande pianeta a un grande mondo su un piccolo pianeta, e siamo rimasti intrappolati in un nuovo regime ecologico. Se prima il Mar Baltico era ricco di merluzzo, povero di nutrienti e molto ossigenato, adesso che ha superato il tipping point è opaco, con pochi pesci di grandi dimensioni e con un carico eccessivo di nutrienti.

I cianobatteri, le cosiddette alghe verdi-azzurre, si alimentano dei nutrienti e crescono in modo esponenziale. Gran parte dello zooplancton che si nutriva delle alghe verdi-azzurre è stato spazzato via dalle aringhe e dagli spratti, il cui numero è esploso dopo che i loro predatori, i merluzzi, sono scomparsi. Adesso, le cose sono peggiorate dagli effetti del cambiamento climatico, che accelera la fusione dei ghiacci artici. Questo fenomeno aggiunge altra acqua dolce all’ecosistema salmastro del Baltico, e aumenta la temperatura dell’acqua – due processi che peggiorano le condizioni del Baltico. Circa un sesto del Baltico è oggi una zona morta, la più grande di questo tipo sul pianeta, con livelli molto bassi di ossigeno disponibile. La cosa incredibile è che questo disastro ambientale si sia verificato proprio di fronte ai cittadini, ai governi e alle imprese di nove stati rivieraschi – Svezia, Finlandia, Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Russia, Polonia e Germania – che hanno sempre attribuito un grande valore al Mar Baltico.

In effetti, secondo le indagini effettuate di recente dal Baltic Stern Project, un programma internazionale di ricerca, i cittadini degli stati che si affacciano sul Mar Baltico sono pronti a pagare pur di avere un Mar Baltico in buone condizioni. E se così fosse, i vantaggi sarebbero notevoli. Una ricerca condotta qualche tempo fa dal Boston Consulting Group (BCG) ha dimostrato che degli investimenti per la sostenibilità nel Mar Baltico potrebbero creare da qui al 2030 550.000 nuovi posti di lavoro e 32 miliardi di euro di valore aggiunto.

Che cosa serve per ribaltare questa situazione? Alla fine, si tratta di operare nell’ambito dei confini planetari, partendo da una drastica riduzione del deflusso di nutrienti dall’agricoltura e dalle città

Che cosa serve per ribaltare questa situazione? Alla fine, si tratta di operare nell’ambito dei confini planetari, partendo da una drastica riduzione del deflusso di nutrienti dall’agricoltura e dalle città. Un primo passo importante è stato quello della città di San Pietroburgo, la principale fonte di inquinamento nel Mar Baltico, che nel 2013 ha aperto un moderno impianto di trattamento delle acque reflue. Serve poi un nuovo regime per la gestione della pesca, per tutelare la diversità e permettere il ripopolamento dei predatori apicali come merluzzi e lucci. Si tratta di una misura che gode del sostegno dei cittadini e dei pescatori, e che è stata applicata in parchi marini nazionali come quelli di Kosterfjorden e Kenting.

La cosa fondamentale è che tutti gli abitanti delle nove nazioni che si affacciano sul Baltico condividano la stessa visione di sostenibilità. È questo il cambiamento di mentalità che serve per guidare la trasformazione: tutti devono essere d’accordo sul fatto che la bellezza e la resilienza dell’ecosistema del Baltico sono la base del benessere umano e dello sviluppo economico, e che politica, mondo degli affari e cittadini hanno solo da guadagnare dagli investimenti su questa visione condivisa.

Un’altra trasformazione in direzione della sostenibilità si sta verificando nelle aree urbane di tutto il mondo, dove è probabile che vengano effettuati gli investimenti più importanti in soluzioni basate sulla natura. La spiegazione è semplice. Abbiamo superato un tipping point, con più della metà della popolazione umana che vive nelle città. Ci sono 28 megalopoli con più di 10 milioni di abitanti, e si prevede che saranno 40 entro il 2030. Nel 2050 due terzi degli umani vivranno in città, che equivale a 2,5 miliardi di nuovi abitanti delle aree urbane.

In altre parole, la sostenibilità di un’area – la sua resilienza, la sua salubrità e la sua bellezza – è diventata una delle caratteristiche più importanti, e questo significa che anche le città devono operare entro i confini planetari se vogliono fiorire negli anni a venire

Si è ormai accumulata una montagna di prove, tra cui anche lo UN Cities Biodiversity Outlook, che dimostrano che gli ecosistemi urbani, anche con solo una biodiversità limitata, possono aiutare le città ad assorbire gli eventi estremi come l’uragano Sandy, che si è abbattuto su New York, o come le frane che hanno colpito Taiwan. Inoltre, nel nostro mondo globalizzato, il settore degli affari ha bisogno di città sostenibili. Durante una chiacchierata informale, Mats Lorentzon, CEO di Spotify, l’azienda che trasmette musica in streaming, ha spiegato che la sua società dà lavoro a giovani di tutto il mondo, e che tra i fattori che spingono queste persone a trasferirsi a lavorare a Stoccolma ci sono la pulizia e i bassi livelli di inquinamento.

In altre parole, la sostenibilità di un’area – la sua resilienza, la sua salubrità e la sua bellezza – è diventata una delle caratteristiche più importanti, e questo significa che anche le città devono operare entro i confini planetari se vogliono fiorire negli anni a venire. Basta guardare a Singapore, che è sia uno degli ambienti urbani più densamente popolati del mondo, sia la dimostrazione che città compatte possono essere circondate da ecosistemi che forniscono possibilità ricreative e resilienza. Quello che ci colpisce ogni volta che la visitiamo è la quantità di natura che è inserita in questo ambiente urbano ad altissima densità. La crescita di città simili significa che abbiamo superato un punto di svolta sociale. E la tendenza è positiva, visto che il numero delle aree urbane che adottano strategie finalizzate a creare ambienti più vivibili sta crescendo in modo esponenziale.

D’altro canto, i 20 milioni di abitanti di San Paolo, la più grande megalopoli brasiliana, stanno affrontando seri problemi ambientali. La peggior siccità degli ultimi ottant’anni ha causato una scarsità d’acqua senza precedenti, e alcuni dei bacini idrici della città si sono prosciugati. Secondo Vincente Andreu, presidente dell’organismo che gestisce le forniture di acqua in Brasile, se la siccità continuerà gli abitanti di San Paolo “rischieranno di dover affrontare un collasso mai visto prima”.

Molte ricerche dimostrano che si avrebbero dei benefici immediati in termini di mitigazione dei cambiamenti climatici: le emissioni si ridurrebbero infatti di 5 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno, comparate a un totale di 32 miliardi di tonnellate derivanti dall’utilizzo dei combustibili fossili

Ma quali sono le cause della crisi? Secondo lo scienziato brasiliano Carlos Nobre, un’autorità sul tema dei cambiamenti climatici, la riduzione delle precipitazioni è riconducibile al riscaldamento globale e alla massiccia deforestazione della foresta pluviale amazzonica. L’Amazzonia è una gigantesca pompa per il vapore acqueo, e si stima che ogni giorno, attraverso la vegetazione, ne rilasci 20 miliardi di tonnellate nell’atmosfera. Di queste, la maggior parte ricade sulla foresta come pioggia. Tuttavia, una frazione significativa di questa umidità si muove sottovento, e ricade nei bacini idrici che riforniscono la città brasiliana di acqua potabile e per l’irrigazione. Il National Space Research Institute (INPE) brasiliano ha di recente dichiarato che l’umidità dall’Amazzonia, sotto forma di veri e propri “fiumi volanti”, è diminuita drasticamente, e questo contribuisce all’attuale siccità.

È quindi chiaro che San Paolo, cuore finanziario e imprenditoriale del Brasile, può continuare a crescere solo se può raccogliere le piogge che arrivano da un’Amazzonia che deve essere gestita in modo sostenibile. Al momento, però, i segnali non sono incoraggianti. Tra il 2012 e il 2013 la deforestazione in Amazzonia è cresciuta del 29%, un incremento che lascia sbalorditi, e che inverte una tendenza positiva che durava dal 2008. Gli studi dimostrano che, continuando a deforestare, entro metà secolo si potrebbe arrivare a una riduzione del 20% delle precipitazioni nella stagione asciutta, e non si può escludere che la foresta pluviale sia prossima a superare un punto di svolta, oltre il quale si trasformerà in un sistema di savana più secco. Un fenomeno simile, oltre a mettere a rischio l’economia di San Paolo e del Brasile, avrebbe conseguenze negative su tutto il mondo, dato che il pianeta perderebbe uno dei suoi grandi serbatoi per il carbonio e una delle sue pompe per il vapore acqueo.

Questa è un’altra delle ragioni per cui dobbiamo fermare la deforestazione. Molte ricerche dimostrano che si avrebbero dei benefici immediati in termini di mitigazione dei cambiamenti climatici: le emissioni si ridurrebbero infatti di 5 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno, comparate a un totale di 32 miliardi di tonnellate derivanti dall’utilizzo dei combustibili fossili. Proteggere le foreste è quindi una strategia win-win molto efficace. Garantisce la crescita economica di città come San Paolo, e protegge dal rischio di cambiamenti climatici catastrofici – e tutto questo lavorando con la natura, preservando la biodiversità e costruendo resilienza di lungo periodo.

Lavorare con la natura è fondamentale per sviluppare sistemi sostenibili che funzionano entro i confini planetari. Questo è particolarmente vero per l’agricoltura

FACCIAMOLO FUNZIONARE

Come abbiamo spiegato più volte in questo libro, lavorare con la natura è fondamentale per sviluppare sistemi sostenibili che funzionano entro i confini planetari. Questo è particolarmente vero per l’agricoltura. L’obiettivo è quello di trasformare i sistemi agricoli, in modo che da fonti diventino serbatoi per il carbonio. Così facendo, i suoli migliorano la loro capacità di trattenere l’acqua e i nutrienti, diventano più produttivi e più resistenti all’erosione. Abbiamo a disposizione diverse strategie: adottare l’agricoltura conservativa, chiudere i cicli dei nutrienti bilanciando allevamenti e colture, applicare la rotazione delle colture, usare l’agricoltura di precisione e soprattutto gestire in modo integrato i nutrienti.

Queste strategie hanno funzionato anche negli ambienti più duri. In Niger, una delle regioni più povere del mondo, le soluzioni basate sulla natura hanno migliorato la qualità della vita di più di un milione di famiglie. Anche se vivono in una delle savane meno produttive e con meno acqua dell’intero pianeta, dagli anni Novanta gli agricoltori delle regioni di Maradi e Zinder, nel sud del paese, sono riusciti a incrementare la produttività di 5 milioni di ettari di terreni coltivati. Inoltre, combinando piante azotofissatrici e colture in un sistema agroforestale, sono riusciti a recuperare almeno 250.000 ettari di terreni gravemente degradati. La biodiversità della regione è cresciuta, la fertilità dei suoli è migliorata, e i territori sono diventati più resistenti agli shock correlati all’acqua. Inoltre, le entrate degli agricoltori sono raddoppiate, con il reddito lordo annuale della regione che oggi arriva a 1.000 dollari a famiglia – e tutto grazie a soluzioni basate sulla natura. Un altro esempio di innovazione sostenibile viene dall’India, dove gli abitanti dei villaggi che cercavano legna da bruciare sconfinavano negli habitat delle tigri, minacciando la sopravvivenza di questi grossi felini.

Per ridurre questi “sconfinamenti”, nei villaggi rurali sono state installate migliaia di unità alimentate a biogas, che permettono alle famiglie di cucinare usando il metano al posto della legna. Dopo essere state riempite con una quarantina di chili di letame e 40 litri di acqua, queste unità possono produrre abbastanza biogas da consentire a una famiglia di sei persone di cuocere tre pasti al giorno. In alcune regioni dell’India, dove sono state installate le unità a biogas, i consumi di legna sono diminuiti del 70%. Inoltre, dato che per raccogliere il letame sono state costruite delle stalle, sono anche scesi gli attacchi da parte delle tigri ai danni del bestiame.

Dando un costo preciso a tutte le forme di inquinamento e a tutti gli abusi che infliggiamo al pianeta, e stabilendo delle normative che permettono lo sviluppo economico nell’ambito dei confini planetari, possiamo tutelare gli ecosistemi rimasti sulla Terra senza frenare il progresso

Un semplice cambiamento nelle modalità di utilizzo dell’energia ha ridotto la pressione sulle poche foreste rimaste nella regione, e ha ridato speranza alle piccole popolazioni di tigri la cui sopravvivenza dipende da quelle stesse foreste. Secondo noi, se ci sono ancora pochi esempi di queste soluzioni basate sulla natura – soluzioni che sono straordinariamente efficienti, sostenibili e invitanti – non è perché manchino le prove che dimostrano che funzionano. Piuttosto, è colpa del perverso insieme di incentivi con cui conviviamo, oltre che della mancanze di normative chiare.

Viviamo in un mondo in cui ha economicamente senso usare in modo inefficiente le risorse naturali (come il fosforo in agricoltura), gli ecosistemi (sfruttando oltre misura le riserve ittiche o tagliando le foreste: in entrambi i casi si ha un vantaggio nel breve periodo mentre nel contempo pregiudichiamo il loro valore per le collettività future), e l’atmosfera (con l’inquinamento dell’aria e con i cambiamenti climatici). Nel breve periodo, questi atteggiamenti danno un’illusione di successo, perché crediamo di poter erodere il capitale naturale ed emettere gas serra senza dover pagare alcun conto. Nel lungo periodo, però, siamo tutti destinati a perdere, perché la Terra ci presenterà il conto sotto forma di siccità, epidemie, collasso degli ecosistemi ed eventi meteorologici estremi. Più a lungo continueremo a indebolire gli ecosistemi da cui dipendiamo, più rischieremo di inoltrarci in un futuro rischioso, insano e inefficiente. Dobbiamo correggere con urgenza questo massiccio fallimento del mercato.

Dando un costo preciso a tutte le forme di inquinamento e a tutti gli abusi che infliggiamo al pianeta, e stabilendo delle normative che permettono lo sviluppo economico nell’ambito dei confini planetari, possiamo tutelare gli ecosistemi rimasti sulla Terra senza frenare il progresso. Al contrario, queste misure libereranno l’innovazione, incentivando gli investimenti nelle soluzioni basate sulla natura. Invece di essere un “limite” alla crescita, l’individuazione di uno spazio operativo sicuro sulla Terra, con budget non superabili per il carbonio, l’acqua e i suoli, farà esattamente il contrario. Scatenerà l’innovazione, consentendoci di crescere nei limiti di un Antropocene finalmente “buono”.

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