Le campagne elettorali non finiscono mai. La politica è un lavoro che non permette pause. Quando una persona viene eletta è praticamente impossibile che si concentri solo ed esclusivamente sul lavoro d’aula. È sempre stato così. Quando vi dicono che “una volta era diverso” vi stanno raccontando una favola e, soprattutto, se la stanno raccontando a loro stessi. È però vero che mai come in questo periodo storico la comunicazione (e quindi la propaganda) ha raggiunto una dimensione così grande da aver assorbito dentro di sé tutto l’orizzonte dell’azione politica. Con le elezioni europee che si avvicinano, la febbre della competizione prenderà ogni singolo candidato e rischieremo di assistere ad una sorta di dimostrazione plastica del “populismo” come ethos dei nostri tempi.
In poche parole: anche chi cercherà di tenere la barra dritta sulla buona comunicazione e la buona politica, rischia di cedere alle lusinghe dell’applauso facile, del Like a buon mercato, dell’inseguimento di modelli di comunicazione che qualche consulente e qualche spin doctor (vero o presunto) proverà a vendere nel tentativo di applicare la comunicazione che oggi va di moda a chiunque. Pensare che ognuno possa dire qualsiasi cosa in qualsiasi modo, che esistano ricette buone per tutte le stagioni porta solo all’appiattimento, all’omologazione e rischia davvero di rendere i politici tutti uguali.
L’evoluzione del sistema politico e la morte dei partiti ha portato ogni candidato a essere un corpo a se stante. Questa incertezza porta alla dinamica per cui dal giorno dell’elezione, l’obiettivo è la rielezione. Un meccanismo vizioso che genera un’ansia da posizionamento e, quindi, la necessità di essere ogni giorno alla ricerca dell’argomento con cui guadagnarsi la luce dei riflettori. La comunicazione perenne porta non solo alla frustrazione (del resto, se questa è l’epoca della democrazia del leader, solo pochi fortunati potranno ambire al palcoscenico principale in prima serata), ma distrugge anche ogni possibilità di pensare a obiettivi politici sul lungo periodo.
Quando vi dicono che “una volta era diverso” vi stanno raccontando una favola e, soprattutto, se la stanno raccontando a loro stessi. È però vero che mai come in questo periodo storico la comunicazione (e quindi la propaganda) ha raggiunto una dimensione così grande da aver assorbito dentro di sé tutto l’orizzonte dell’azione politica
Questa tendenza a ragionare solo in termini di comunicazione porta a quello che molti osservatori critici hanno definito “il presente permanente”, e la ricerca ossessiva del consenso porta alla dinamica per cui conta il risultato n’importe quoi e non ha senso concentrarsi su un orizzonte politico comune sul lungo periodo (qualcuno ha detto “linea di partito”?). Il lato oscuro di tutto questo, se già non fosse abbastanza, sta nel leggere i numeri come unico metro di giudizio per cui i politici, prima di dire qualsiasi cosa, non si preoccupano più di capire cosa pensano, ma cosa può o non può piacere a un elettorato che ormai è solo più pubblico.
Nelle riunioni strategiche si sente spesso dire che con certi argomenti si perdono voti e quindi è meglio lasciare perdere. Se uniamo questo atteggiamento al fatto che i partiti abbiano rinunciato a studiare — nella teoria sui libri, e nella pratica affrontando i problemi giorno dopo giorno — e a inserire le proprie posizioni (che dovrebbero però essere nette, contrapposte a quelle dell’avversario) dentro un orizzonte più ampio per cui si sente che si sta votando non tanto un simbolo, quanto una comunità di destini, capiamo bene come il problema sia più radicato di quanto si immagini. Anche perché alla fine i politici inseguono il voto senza scontentare nessuno, danno al pubblico quello che il pubblico vuole e non si preoccupano più di dire quello che in realtà pensano. Per fare un esempio: a Sinistra questo problema si vede nella timidezza con cui si sono affrontate per anni tutte le questioni più spinose nella paura di perdere il mitologico bacino dell’elettore mediano. Non è tanto il fatto che si dica il falso, quanto che si facciano sempre mille precisazioni e mille distinzioni per giustificare qualcosa su cui in realtà bisognerebbe essere sicuri e se qualcuno non è d’accordo, beh, pazienza.
La politica giusta è quella che combatte proponendo un modello di società che sia verticale — e cioè capace di andare in profondità nei problemi — e orizzontale, capace quindi di affrontare la complessità offrendo una soluzione sistemica. È quella della battaglia delle idee, dove il voto si basa sulle cose e non sulla simpatia o sulla promessa onnicomprensiva. È quella per cui se si vota una parte politica non si vota l’altra perché si dicono cose diverse e che distinguono. Se il postmoderno — che come orizzonte filosofico ha generato una politica post-democratica, spettacolare, polarizzante — ci ha condannato alla comunicazione 24/7, forse è ora di trovare una soluzione più che altro per limitare i danni. Altrimenti saremo tutti complici di un populismo perenne che prende tanti Like e tanti applausi, ma che non produce assolutamente niente se non il rumore di fondo che deve essere alimentato perennemente, all’infinito. Con un consenso che oggi c’è, domani no. E oltre il danno di aver perso voti, la beffa di non sapere più per che cosa si sta lottando.