Lo Smart Working (o lavoro “agile”) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro dipendente, svolto tipicamente da casa. Diversamente dal telelavoro lo smart work può permettere non solo una flessibilità del luogo di lavoro ma anche una flessibilità di orario. La legge 81 del maggio 2017 ha stabilito una serie di norme in caso di applicazione di questa modalità di lavoro che definiscono come e quando questa tipologia di rapporto può essere attivata, la durata, il preavviso, il potere e le modalità di controllo dei lavoratori da parte dell’azienda. La legge del 2017 dà una cornice normativa ad un fenomeno che si stava già diffondendo per via contrattuale soprattutto nelle grandi aziende. Come il welfare aziendale anche lo smart work è stata una riforma molto di successo proprio perché ha incontrato non soltanto una tendenza naturale dell’economia ma anche un dinamismo della contrattazione tra le parti sociali.
La diffusione dello smart work è un tema del futuro, ci sono perfino studi che prevedono che il 70% del lavoro negli USA tra pochi anni sarà in modalità “smart”. Sebbene questo risultato sia molto lontano, è innegabile che la maggior parte dei lavoratori abbia sempre desiderato salario fisso e orari flessibili. Oggi anche un’assistente alla clientela non deve più necessariamente stare dalle 9 alle 17 allo sportello ma il suo lavoro può essere fatto attraverso una App e la performance può essere misurata accuratamente. E infatti negli accordi aziendali sullo smart work spesso la motivazione, oltre al permettere la conciliazione vita lavoro e evitare i tempi lunghi di trasporto, è quella di valorizzare le nuove tecnologie e in particolare l’informatica; perché soprattutto nei centri delle nostre città dove gli spazi sono stretti e cari, le nuove tecnologie si valorizzano di più da casa che dall’ufficio.
Ma quanti sono gli smart workers? Da quando la legge sul welfare aziendale del 2016 impone il deposito dei contratti presso il ministero (prima non c’era una fonte di informazione ufficiale) possiamo fare qualche stima più precisa: i contratti depositati sono circa 15mila, 2.1 milioni di lavoratori hanno premi di produttività detassati e circa 800mila qualche forma di welfare aziendale ma solo 100mila circa hanno lo smart work. In realtà questo numero lo ricaviamo più dalle fonti di CGIL, CISL e Uil ognuno dei quali raccoglie i suoi contratti e li analizza. Ne viene fuori un quadro in cui mentre la maggioranza dei contratti tratta di salario, orario e eventuali crisi, solo il 10% dei contratti tratta di organizzazione del lavoro e all’interno di questi contratti il 60% parla di smart work. Un numero piccolo quindi e generalmente limitato a lavoratori qualificati la cui valutazione è a risultato. Curioso il fatto che alla Pubblica amministrazione, dove lo smart work sarebbe naturale, appartengono solo il 7% del totale dei contratti di smart work.
In Italia oggi la “fame “ di salario dei lavoratori dipendenti (il salario medio è stagnante da ben 20 anni) potrebbe facilmente indurre in tentazione il governo: introdurre il salario minimo o ridurre lorario di lavoro per decreto. Sarebbe la morte dello smart work (oltre che dell’economia italiana) che invece vive di contratti.
Come fare quindi ad incentivare il lavoro agile? La prima cosa da evitare sono gli interventi per legge. In Italia l’orario di lavoro è calato del 10% negli ultimi 30 anni (in linea con tutti i paesi sviluppati). È calato per effetto della contrattazione, non della legge. Alcuni paesi son caduti nella tentazione di ridurre l’orario per legge e hanno commesso un errore grave e costoso (la Francia paga 12 miliardi all’anno per compensare le imprese di 5 ore settimanali in meno di lavoro da quando ci sono le 35 ore). In Italia oggi la “fame “ di salario dei lavoratori dipendenti (il salario medio è stagnante da ben 20 anni) potrebbe facilmente indurre in tentazione il governo: introdurre il salario minimo o ridurre lorario di lavoro per decreto. Sarebbe la morte dello smart work (oltre che dell’economia italiana temo) che invece vive di contratti.
L’incentivazione dello smart work piuttosto dovrebbe rientrare nella più generale esigenza di estendere gli incentivi delle macchine industry 4.0 anche all’organizzazione del lavoro. Infatti, solo con l’innovazione dell’organizzazione concertata in azienda si creano i nuovi lavori. Le norme su formazione 4.0 e welfare aziendale fanno parte di questa strategia generale di approccio al mercato del lavoro. Entrambe ricalcano un concetto di partecipazione dei lavoratori alle innovazioni di azienda: gli incentivi devono unire capitale e lavoro (formazione e/o welfare) in modo da non alimentare le paure della disoccupazione tecnologica.
Questo governo però ha ridotto non solo industry 4.0 ma anche formazione 4.0 invece quel che servirebbe è una loro estensione allo smart work. Per gli sgravi fiscali si potrebbe aggiungere al welfare aziendale (già detassato e decontribuito in caso di piani di partecipazione organizzativa dei lavoratori) lo smart work: con il welfare aziendale ti potresti “comprare” smart work detassato. La platea può essere allargata solo se si allarga la diffusione dei metodi di valutazione del lavoro a risultato, la tecnologia può fare molto ma si può scambiare più smart work a fronte di maggiori controlli a distanza. Infine le piattaforme di lavoro possono consentire di gestire lo smart work in azienda e fuori dall’azienda in modo molto più facile organizzando la scelta individuale di ogni lavoratore all’interno degli orari di tutta l’azienda. Purtroppo invece di percorrere questa strada il governo ha imposto in legge di bilancio la precedenza per le mamme nell’assegnazione dello smart work con il risultato che, irrigidendo i vincoli, le aziende sono meno contente di offrire l’opzione e le mamme temono che sia l’anticamera del licenziamento. Lo smart work non può essere la gentile concessione dell’azienda ma è il modo di lavorare del futuro di tutti, uomini e donne.