Per coltivare verdura, frutta e ortaggi non ha bisogno di terra, pesticidi, diserbanti od ogm. Può essere fatta a casa, in Antartide o nel Sahara. E se applicata su larga scala, potrebbe sfamare chiunque nel mondo a qualsiasi latitudine e clima salvando l’ambiente. È la coltura idroponica, antichissima tecnica di coltivazione che sostituisce la terra con un materiale inerte come l’argilla espansa, la fibra di cocco o un substrato di sali minerali. Millenni fa fu praticata dai babilonesi nei loro giardini pensili o dagli Atzechi nei loro giardini galleggianti. Ma negli ultimi decenni la tecnologia l’ha resa una tecnica a disposizione di molti imprenditori amanti del rischio. Per funzionare ha bisogno di una serra asettica, illuminata con lampadine Led che imitano la luce del sole.
Un sistema chiuso che produce per dodici mesi all’anno, senza sosta, e ha bisogno del 90% in meno dell’acqua utilizzata nell’agricoltura tradizionale perché il substrato sterilizzato trattiene come una spugna la quantità necessaria alle piante. L’acqua non utilizzata viene recuperata, sterilizzata e usata di nuovo. Lo stesso vale per l’aria. Tradotto: niente consumo di suolo, nessuna perdita di minerali, nessun parassita, nessuna sostanza nociva immessa nell’ambiente e prodotti che crescono più velocemente. Ma l’aspetto più importante della coltura idroponica e che non ha bisogno di migliaia di ettari per poter funzionare. Ed è questo che la rende l’agricoltura ideale per il mondo di domani, sempre più urbanizzato, danneggiato dall’uomo e povero di risorse.
Detto così, sembra la soluzione a tutti i problemi dell’agricoltura moderna, e forse lo sarà. Allora perché non è ancora diventato lo strumento principale utilizzato dai Paesi che ne avrebbero tanto bisogno? Fino a pochi anni fa mancava la tecnologia adeguata ad abbattere i costi, ancora alti, e a creare delle serre adatte. Siamo ancora nella fase in cui i primi imprenditori che hanno ripreso questa tecnica stanno vedendo i primi frutti, in tutti i sensi, dopo anni di esperimenti. Senza contare la ritrosia delle associazioni di agricoltori che considerano la coltivazione tradizionale la sola in grado di portare sulle nostre tavole prodotti più saporiti e “sani”. La diffusione della coltura idroponica negli ultimi anni coincide con la nascita del concetto di vertical farming, agricoltura verticale, ideata nel 1999 dall’ecologista statunitense Dickson Despommier, professore alla Columbia university di New York.
Nel libro The Vertical Farm: Feeding the World in the 21st Century, pubblicato nel 2010, Despommier spiega che l’ambiente in cui viviamo è il più tossico di sempre per l’uomo e quindi i prodotti che consideriamo naturali non sono così benefici. Il modo più efficace per tutelare la salute dell’uomo e del Pianeta è quello di sviluppare serre verticali, sterilizzate e indoor in appositi grattacieli creati per l’uso. Ne basterebbero 50 da 30 piani per garantire il 50% del fabbisogno di una città come New York, secondo Despommier.
Non a caso la prima vertical farm è stata creata nella città Stato dei grattacieli, Singapore, nel 2012, ma altri Paesi si sono interessati a questa tecnica. Dalla Corea del Sud al Giappone, dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita. In Europa l’esperimento più interessante è quello di Infarm GmbH che a Berlino ha installato due serre nei grandi magazzini di Marktauf a Munster, e saranno operative dal 7 maggio.
Sono tante le realtà idroponiche nel nostro Paese: da Sfera Agricola che in Toscana ha costruito la più grande serra idroponica d’Italia (13 ettari) a Fri-El Greenhouse, azienda agricola di Crevalcore in provincia di Bologna le cui 17 mila piante producono 3 tonnellate di pomodori “Cuore di Bue” al giorno, più o meno 600 tonnellate all’anno. A Cinisello Balsamo (Milano) è addirittura nato il più evoluto laboratorio per studiare le tecniche del vertical farming in Europa, Planet Farms che studierà il metodo più efficace di coltivazione in collaborazione con il laboratorio Philips GrowWise Center di Eindhoven, nei Paesi Bassi. L’obiettivo è quello di aprire entro l’anno uno stabilimento a Milano.
Una delle prime imprenditrici a scommettere sulla cultura idroponica è stata Giorgia Pontetti, ingegnera elettronica e aerospaziale che nel 2013 ha creato la Ferrari Farm, un’azienda di 13 ettari a pochi km da Fiumata, un piccolo paese, in provincia di Rieti dove produce 365 giorni all’anno pomodori, spezie e ortaggi. L’aspetto più innovativo di ciò che può fare la coltura idroponica l’ultimo prodotto dell’azienda laziale: il “robot farm”, una serra portatile grande come una lavatrice che permette a chiunque i di coltivare in casa spezie e ortaggi di alta qualità. Dentro ci si possono coltivare contemporaneamente 50 piedi di insalata o di verdura da foglia oppure due ripiani interi di micro greens, delle verdure un pochino più grandi dei germogli ma più ricche in proprietà nutritive. Il consumo è paragonabile a una lampadina di vecchia generazione, circa 150 watt.
«La coltura idroponica è ecosostenibile perché l’acqua e l’aria sono utilizzate a ciclo chiuso. Nulla viene disperso nell’irrigazione perché il sistema prescinde dall’ambiente esterno e non inquina al di fuori», spiega Pontetti. «Il futuro dell’agricoltura è la vertical farm idropobica fatta in città in un ambiente hi tech sterile. Ma non sostituirà l’agricoltura tradizionale, la completerà perché arriva più facilmente in condizioni ambientali estreme. Un vantaggio per tutti». Sulla stessa scia anche la società Enea ha creato nel 2018 la sua scatola magica. Si chiama BoxXland, ed è una vertical farm modulare e trasportabile formata da container sovrapposti tra loro. Ogni mese vengono prodotte duemila piante (32mila all’anno) su circa 60 metri quadrati di superficie.