Ogni grosso evento ha il suo ciclo di vita. Nasce. Esplode. Muore. Pensare che tutto resti immutabile, o che una volta diventato il leader di un settore tu possa restare in sella in eterno, è quantomeno ambizioso. Nel mondo della tecnologia i leader non durano mai più di un decennio. Si pensava che Microsoft sarebbe stato per sempre il più importante fornitore di sistemi operativi del mondo: così non è stato. Si pensava che Nokia sarebbe stato per sempre sinonimo di telefonia mobile: così non è stato. Si pensava che Apple avrebbe per sempre dettato la linea sull’innovazione “per tutti”: così non è stato. Quando Mark Zuckerberg, al F8 di San José, la conferenza annuale in cui Facebook fa il punto della situazione, dichiara che “il futuro è privato” stiamo assistendo in diretta a qualcosa che se non è un canto del cigno poco ci manca. Non solo perché si tratta di un rovesciamento concettuale rispetto a quando, nel 2009, lo stesso CEO di quello che sarà ricordato comunque come uno dei più importanti social network della storia dichiarava l’esatto opposto (“L’era della privacy è finita”); ma anche perché si tratta di un tentativo — tardivo e maldestro — di rimettere il dentifricio nel tubetto alla ricerca della reputazione perduta. Forse per sempre.
Durante il keynote speech, Zuckerberg ha annunciato una quinta importante evoluzione di Facebook. Che passerà gradualmente da essere un luogo a prevalenza pubblica, a luogo in cui predomineranno piccole stanze e piccole comunità. Non più news feed, ma gruppi. Non più conversazioni pubbliche, ma chat private. Non più dati e conversazioni vendute al miglior offerente, ma sistemi criptati end-to-end. Non più leisure, ma servizi (da applicativi per la ricerca di lavoro, a servizi per il dating online, passando per i micropagamenti tra utenti). Insomma, l’architettura del sito e dell’app sarà rifocalizzata sulla centralità della “comunità”. Una comunità non più in espansione ma in contrazione. La spinta è ovviamente legata alla necessità di rispondere allo “spirito del tempo” che, in seguito a tutto quello che è successo dopo le elezioni americane del 2016 — quando tutto il mondo ha di fatto scoperto che quando usi qualcosa di gratis il prodotto sei tu, che i dati che forniamo gratuitamente ai social network sono usati per profilarci e renderci consumatori perfetti, e che qualcuno avrebbe utilizzato questi dati addirittura a scopi elettorali — vede nelle big tech qualcosa di cattivo e tossico, un ambiente malsano in cui addirittura si mette a rischio la nostra integrità di persone fisiche e, a livello più ampio, la natura stessa della democrazia. Funzionerà? Non possiamo saperlo, e le reazioni sono molto scettiche a riguardo.
Mark Zuckerberg per anni ci ha spinti a condividere tutto quello che volevamo (anche quello che non sapevamo di volere) e adesso dice di volerci aiutare a rimettere tutto al sicuro. Not a great plan
La strada per recuperare la fiducia degli utenti è lunga. Negli ultimi anni il social network ha dovuto affrontare diversi problemi collaterali alla perdita di credibilità come l’aumento dell’età media dei suoi iscritti e la conseguente mancanza di attrattiva verso i più giovani; oppure il fatto che entro il 2050 ci saranno molti più profili di gente morta che non di gente viva. Inoltre, bisogna capire cosa vuole essere Facebook nei prossimi anni considerando che quello che noi vediamo come Facebook non è quello che vedono in giro per il mondo (in Africa ad esempio il social network è un vero e proprio fornitore di servizi, compreso fornitore di Internet). È utile però capire anche come intende ristrutturare il modello di business se apparentemente vuole rinunciare al vero e proprio petrolio di questi anni: i dati.
Inoltre, siamo sicuri che per contrastare il fenomeno delle fake-news e far tornare il social dentro una dinamica emancipatoria e costruttiva voler spostare tutto in piccoli gruppi e piccole comunità sia la mossa giusta? Zuckerberg ha dichiarato di essere convinto che le “piazze digitali” siano importanti quanto le piazze autentiche e quindi di voler trasformare l’esperienza sociale in qualcosa di più intimo. Ma sembra molto ingenuo pensare che la dimensione ristretta porti automaticamente alla virtuosità. Del resto, le campagne elettorali sono piene di “war room” in cui gli attivisti digitali vengono istruiti sui temi e le parole d’ordine da divulgare (anche nella guerriglia tra candidati); oppure, è molto più facile creare tormentoni e dicerie anche false in gruppi ristretti — dove per ristretto vuol dire anche migliaia di persone, eh — che hanno dinamiche precise.
Inoltre, siamo sicuri che per contrastare il fenomeno delle fake-news e far tornare il social dentro una dinamica emancipatoria e costruttiva voler spostare tutto in piccoli gruppi e piccole comunità sia la mossa giusta?
Posto che nessun guru della Silicon Valley è improvvisamente diventato un generoso benefattore, bisogna capire come Facebook abbia intenzione di confermare le sue prospettive di crescita. Del resto, i suoi soldi arrivano dalle pubblicità targetizzate alla perfezione. E se si vuole potenziare l’aspetto delle transazioni economiche e delle vendite, ci sarà comunque una tracciabilità.
Dire che il “futuro è privato” non significa niente se si segue comunque la tua posizione ogni volta che prendi il telefono in mano, ti si mostrano annunci personalizzati al millimetro e ti si traccia ogni transazione e ogni azione. C’è comunque una stratificazione di processi algoritmici, di machine learning, di reti neurali che non si risolvono in una frase: c’è comunque qualcuno che ascolta e che registra. Non è questione di complotto del grande fratello, ma è una questione di natura e di architettura del mezzo. Mark Zuckerberg per anni ci ha spinti a condividere tutto quello che volevamo (anche quello che non sapevamo di volere) e adesso dice di volerci aiutare a rimettere tutto al sicuro. Not a great plan.
Però va capito: è una figura pubblica che gestisce il più importante social network del mondo. Ogni sua parola diventa “politica”. Ha delle conseguenze nella vita pubblica, nella vita economica e anche nella sua versione digitalizzata attraverso i social. Quello che stiamo per vedere è la messa in pratica di uno “spin” per cercare di rovesciare il frame. Resta da capire se c’è qualcosa di più che una trovata pubblicitaria.