ATTENZIONE SPOILER
A cosa serve la politica? A liberarti da un tiranno. A rompere la ruota crudele della storia. A fabbricarne un’altra, probabilmente migliore. A liberare i tuoi amici condannati a morte. A trovare la soluzione giusta per un trono. Tyrion Lannister è il vero eroe dell’epilogo del Trono di Spade, quello che nell’arco di mezz’ora, grazie all’intelligenza e alla parola, passa dalle segrete di Approdo del Re al tavolo di Primo Cavaliere e compie il destino di tutti con un capolavoro di diplomazia. Intorno a lui avrà i reduci di guerra che si sono schierati dalla parte giusta, per amore (Brienne), per senso di giustizia (Sir Davos), per riconoscenza (Samwell Tarly) ma anche per soldi (il mercenario Bronn, ora Lord di Alto Giardino), un movente che a Westeros nessuno giudica poco etico.
La lezione politica finale di Game of Thrones è piuttosto semplice. Né la legittimità, né la forza, né la fedeltà ai valori bastano per conquistare in modo duraturo il potere. Jon Snow, erede al Trono per sangue, eroe della grande alleanza degli uomini contro contro gli Estranei, tirannicida per senso morale, finirà in esilio ai confini del mondo. A Daenerys Targaryen, titolare dello speciale diritto che conferiscono gli eserciti e i draghi, andrà pure peggio: morta nella cenere, uccisa dal suo amante e alleato proprio mentre pensa di averlo riconquistato con i suoi propositi di rivoluzione planetaria.
Nella liquefazione del Trono molti hanno intravisto un contenuto analogo alla distruzione dell’Unico Anello nel romanzo di J.R.R. Tolkien, ma la similitudine non calza fino in fondo. Nella Terra di Mezzo l’anello deve essere distrutto per la scelta collettiva dei vecchi popoli – elfi, stregoni, numeroeani – di rinunciare al potere assoluto, a costo di veder tramontare la loro era. Anche a Westeros siamo alla fine un ciclo, ma non c’è nessuno che lo abbia volontariamente deciso: Lord e casate fino all’ultimo si battono, si tradiscono, fanno e disfano alleanze, per intronare il loro sovrano di riferimento. È il destino che tesse la trama assai più delle decisioni degli uomini. E persino l’indipendenza del Nord, sotto il regno di Sansa, è frutto di un tiro di dadi: la scommessa che fece molte puntate fa cercando l’aiuto di Lord Ditocorto, prima di una decisiva battaglia.
La lezione politica finale di Game of Thrones è piuttosto semplice. Né la legittimità, né la forza, né la fedeltà ai valori bastano per conquistare in modo duraturo il potere
Di questo episodio finale ricorderemo soprattutto il monologo di Tyrion sul valore unificante delle storie, che conquistano il rispetto dei popoli più della discendenza, del denaro e dei soldati: è un po’ il comizio finale degli sceneggiatori, che mettono in bocca al loro personaggio preferito la rivendicazione del loro lavoro, una saga che passerà agli annali come l’epopea di riferimento dei nostri anni. Ha poca importanza che il finale sia piaciuto oppure no, che l’incoronazione di Bran – il più strano e incomprensibile dei personaggi, quello per cui nessuno tifava – abbia avuto successo. Anzi, l’accanimento degli spettatori nella critica al plot, conferma la grandiosità del risultato e il suo impatto sulla cultura popolare.
Poi, resterà nella memoria il muto discorso sulla libertà implicito negli ultimi quindici minuti, con i protagonisti finalmente padroni delle loro scelte oltre gli obblighi di censo, casata, educazione. Verme Grigio rifiuta l’offerta di terre e fa vela verso l’Isola di Naath, terra d’origine della sua amata. Arya volta le spalle a tutto e sceglie l’avventura in terre sconosciute, nell’Ovest oltre Westeros dove nessuno è mai stato. E Jon finalmente si scioglie dalle catene del dovere connaturate agli Stark: lo avevano esiliato tra i Guardiani della Notte ma disobbedisce, si unisce al libero popolo dei Bruti, oltrepassa la barriera diretto verso Nord. Un filo d’erba verde nel ghiaccio ci dice che questa storia, cominciata con la frase “l’inverno sta arrivando”, è davvero finita.