Anne Sexton è morta 45 anni fa, e come tutti i poeti amava gli amori impossibili, quelli incarnati all’incarnato del cielo. Questa storia, appunto, comincia dalla fine, dalla morte. La morte, per un poeta, coincide con l’ultimo libro. The Awful Rowing Toward God. Il libro uscì nel 1975, postumo. L’aveva scritto in due settimane e un tot, due anni prima. Durante la gita in un ospedale psichiatrico, la Sexton incontra un prete cattolico. Dice che non vuole andare in Chiesa. “Non so pregare, io. Vorrei che Lui fosse il mio Dio. Ma non voglio saperne di Lui. Lo voglio inventare”. Il prete la prende in simpatia, legge le poesie, dice quella frase che si ripete ritualmente tra i fan della Sexton: “La tua macchia da scrivere è il tuo altare”.
La storia comincia dalla dedica a quell’ultimo libro. For Brother Dennis, wherever he is. Chi è frate Dennis, che fine ha fatto? In questa storia ci sono due dati da dire. L’amore come consegna ferina all’impossibile. E la lingua, il linguaggio, come scandaglio dell’impossibile, la millimetrica faina che perimetra ciò che non ha parola, il muto che abbacina.
La storia la racconta, con una certa verve, Nick Ripatrazone sull’ultimo numero di “Literary Hub”. Titolo: The Poet and the Monk: An Anne Sexton Love Story. Più che una specie di Uccelli di rovo del patetico poetico, però, qui siamo nel gorgo di una vicenda dal clangore medioevale. Dentro un poeta, in effetti, c’è sempre qualcuno che vuole rovinare le sacre verità, che vuole, con miele verbale, rompere i patti.