Il decreto cosiddetto sicurezza bis ha appena visto la luce (d.l. 14 giugno 2019, n. 53), dopo una serie di limature che ne hanno attenuato la portata rispetto alla prima versione. E il ministro dell’Interno ha trovato il modo applicarlo il giorno stesso della sua entrata in vigore, nei confronti della nave Sea Watch 3. Prima di commentarne qualche disposizione, è necessaria una premessa. Appare singolare che sul tema del trasporto dei migranti il governo ricorra a un decreto-legge – cioè a un provvedimento basato su necessità e urgenza – a fronte di una oggettiva e duratura diminuzione degli sbarchi, quindi del venir meno dell’emergenza a ciò connessa. Dai dati diffusi dal Viminale risulta, infatti, che dal 1 gennaio al 10 giugno 2019 sono arrivati in Italia 2.144 stranieri, l’85% in meno rispetto al 2018, il 96% in meno rispetto al 2017. Né tantomeno potrebbe essere invocato a fondamento del decreto la necessità e l’urgenza di evitare il cosiddetto “pull factor”, poiché è stato dimostrato che la presenza di navi di soccorso non incentiva le partenze dei migranti. Come spiega Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi politici internazionali), tra il 1 maggio e il 7 giugno sono partite dalla Libia almeno 3.092 persone: 379, quando navi di ricerca e soccorso erano presenti in mare; 2.713 i quando non le navi non c’erano. Peraltro, il decreto sembra privo dei presupposti di necessità e urgenza riguardo non solo alla parte sull’immigrazione, ma anche a quella relativa all’inasprimento delle sanzioni per reati commessi nel corso di manifestazioni pubbliche: ultimamente, se c’è stata un’emergenza, è stata in senso inverso, cioè a danno dei manifestanti, oggetto di eccessive attenzioni – quali la rimozione di striscioni o l’impedimento di altre inoffensive espressioni di dissenso – se non proprio di aggressioni, come nel caso del cronista a Genova. Oltre alla mancanza dei presupposti costituzionalmente previsti, si osserva, poi, l’assenza di quell’omogeneità nel contenuto del decreto-legge che la Consulta ribadisce da tempo e che i governi continuano a ignorare: in questo caso, sono state assommate norme su controllo delle frontiere, manifestazioni in luoghi pubblici, Universiadi, organico della giustizia ecc..
Fatta questa premessa, la parte sull’immigrazione del decreto sicurezza bis costituisce la prosecuzione per via normativa delle numerose direttive emanate nei mesi scorsi dal ministero dell’Interno in tema di trasporto in mare di migranti. Si tratta di atti forse sottovalutati da un’opinione pubblica più impegnata a commentare le esternazioni sui social dei ministri che i loro atti ufficiali. Eppure tali direttive pongono le basi per il decreto e ne forniscono i criteri interpretativi. Esse sono fondate su una serie di presupposti concatenati: e cioè che gli interventi in determinate aree di mare da parte di imbarcazioni private non siano mere operazioni di salvataggio, ma diano luogo a un preventivato e intenzionale trasporto dei migranti per favorirne l’ingresso illegale sul territorio nazionale; incentivino gli attraversamenti via mare di stranieri irregolari; comportino rischi di ingresso di soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica. Su tali presupposti, che si sostanziano in una sorta di presunzione di colpevolezza a carico delle Ong che compiono salvataggi in mare, si fonda l’ampio potere di chiudere le acque italiane attribuito dal nuovo decreto al titolare del Viminale.
La “concretizzazione” di un reato può essere accertata solo dall’autorità giudiziaria, mentre con il decreto sicurezza bis è l’autorità amministrativa a valutare se c’è o meno il reato
Infatti, con il d.l. n. 53/2019, il ministro dell’Interno – di concerto con il ministro della difesa e con il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, informandone il presidente del Consiglio dei ministri – «può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare (…)». La disposizione, attraverso il richiamo alla Convenzione di Montego Bay, fa riferimento al cosiddetto “passaggio pregiudizievole” o “non inoffensivo” di una nave con riguardo al reato di favoreggiamento di immigrazione irregolare di cui all’art. 12 del Testo unico sull’immigrazione; e legittima il ministro dell’Interno a intervenire quando “si concretizzano” condizioni che fanno reputare sussistente tale reato. Ma la “concretizzazione” di un reato può essere accertata solo dall’autorità giudiziaria, mentre con la disposizione suddetta è l’autorità amministrativa che valuta se il reato vi sia e agisce di conseguenza. E, soprattutto, in tale valutazione, su cui si fonda il potere del ministro dell’Interno di vietare transito e sosta nelle acque territoriali, è insito un pericoloso automatismo, lo stesso su cui si basa la citata presunzione di colpevolezza delle Ong (nel caso Sea Watch 3 Salvini parla di «complici di scafisti e trafficanti»): nel salvataggio di naufraghi, chi non accetta di farsi coordinare dalle autorità Sar (Search and Rescue) competenti per il tratto di mare in cui si trova ed entra in acque italiane, chiedendo l’assegnazione di un place of safety per sbarcare i migranti, viola la legge e, volendo trasferire sul territorio italiano migranti irregolari, mette in pericolo il Paese.
In questi casi, il passaggio della nave non è mai “inoffensivo” e quindi, in automatico, può scattare l’intervento del ministro dell’Interno ai sensi del nuovo decreto. Il “teorema” esposto – su cui si fonda l’impianto della parte sull’immigrazione del decreto sicurezza bis, come detto – non considera il fatto che l’evento di soccorso può essersi verificato in acque di responsabilità libiche, che l’autorità da cui le navi rifiutino di farsi coordinare può essere la guardia costiera libica e che è legittimo non portare i migranti in un posto non sicuro. In altri termini, il decreto esprime la totale noncuranza di quanto «Ampiamente documentato in molti rapporti delle Nazioni Unite e delle ONG»: e cioè che «I migranti in Libia sono soggetti a diverse violazioni dei diritti umani, tra cui il traffico di persone, prolungate detenzioni arbitrarie in condizioni disumane, torture e maltrattamenti, uccisioni illegali, stupri e altre forme di violenza sessuale, lavori forzati, estorsioni e sfruttamento. Pertanto, la Libia non può essere considerata un posto sicuro ai fini dello sbarco dei migranti» (Onu, lettera del 15 maggio scorso del Commissario per i Diritti Umani al ministro degli Esteri italiano). Ma non basta.
Il decreto sembra non considerare la possibilità di situazioni in cui sia necessario portare a terra persone in pericolo per la propria salute: in questi casi, al di là di qualunque motivo ostativo accampato pubblicamente dal ministro, si imporrebbe comunque lo sbarco, dato che la nave è un mezzo di soccorso e l’assistenza a bordo è solo una fase dell’operazione di salvataggio. In altri termini, «Il diritto alla vita deve prevalere sulla legislazione nazionale ed europea, sugli accordi bilaterali, sui protocolli d’intesa e su ogni altra decisione politica o amministrativa intesa a “combattere l’immigrazione irregolare”» (ONU). Molte sarebbero le disposizioni in tema di immigrazione da commentare: tra le altre, quella sugli «interventi di cooperazione (…) con finalità premiali», tesi a finanziare Stati che consentano la riammissione nel proprio territorio di migranti irregolari, slegata da qualunque considerazione circa obiettivi di sviluppo dei Paesi cui i fondi sono destinati, quindi concepita non come una forma di collaborazione, ma come una contropartita con l’uso opaco di denaro corrisposto al dittatore africano di turno. Ma è meglio fermarsi a questo punto e verificare il funzionamento del decreto nel caso Sea Watch 3: con l’auspicio che non faccia troppi danni.