E «a cosa debbo la sua telefonata, dottore?», e «potremmo fare il giorno x a casa mia, dottore», e «prego si accomodi dottore». Emanuele Severino è gentilissimo, quasi cerimonioso. Si scusa lui se l’intervistatore vuole solo un bicchier d’acqua, e sta ad ascoltare bene, seduto sul divano, prima di rispondere puntuale, completo. Ha una bella voce dolce, un po’ impostata. Energica. Ride. A 90 anni fa lezione, all’Università Vita e Salute di Milano, assicura che i suoi esami sono facili, e dice di non essersi mai arrabbiato con un allievo ignorante in vita sua perché «bisogna incoraggiare i giovani», e in questo non assomiglia a Kant, convinto che bisognasse aiutare gli studenti di medio livello, perché “per i cretini non c’è speranza, e i geni si aiutano da sé”.
Poi alla domanda qual è la tesi di laurea che l’ha colpita di più sta per rispondere: «Goggi». Poi si ferma: «Sa ho tanti allievi, parecchi sono diventati ordinari, anche se molti di essi sono in pensione, e la cosa mi rammarica un po’. Comunque non vorrei fare nomi, sa, non vorrei si offendesse qualcuno».
Emanuele Severino nella stanza ha un pianoforte a coda color legno e non suona da dieci anni: da quando se n’è andata la moglie Esterina: Ester Violetta Mascialino. Lei un’enfant prodige, oltre che la ragazza più bella del liceo “Arnaldo” di Brescia, lui uno studente brillante, di padre siciliano, di Mineo, madre bresciana («una vichinga», e fa scendere la voce di un tono).
Una sera di primavera, tra i vari ragazzi che arrivarono in gruppo sotto la finestra, Esterina salì sulla canna della bicicletta di Emanuele. “Mi scelse perché la incuriosivo”. 60 anni insieme, due figli. Di lei mi mancano gli sbuffi -ha raccontato in un’intervista a Panorama- Non erano sbuffi di fastidio, erano smorfie giocose, come quelle di una micia. Una gatta”.
A volte, mentre Esterina rileggeva i suoi scritti, alla menzione dell’eternità dell’essere lei gli diceva: “come vorrei che le cose stessero davvero come dici tu”.
***
Severino racconta: «Il mio primo libro è intitolato La coscienza. Pensieri per un’anti filosofia, dove l’antifilosofia è la musica. C’è Schopenhauer, c’è Nietzsche. E non era neanche malaccio. L’ho scritto nelle vacanze di terza liceo».
Il secondo è Note sul problematicismo italiano, scritto negli anni universitari, il terzo la sua tesi di laurea (con Gustavo Bontadini) intitolata Heidegger e la metafisica, scritto a 21 anni, nel 1950, è diventato un “caso” filosofico. Lo fecero avere ad Heidegger, ed è notizia recente che Heidegger avesse, nei suoi appunti, scritto a proposito della tesi di Severino. In questi giorni è in corso a Brescia un convegno internazionale Heidegger, nel pensiero di Severino. Metafisica, Religione, Politica, Economia, Arte, Tecnica, con la partecipazione di numerosissimi studiosi italiani e internazionali. Un omaggio a Severino da parte di tutto il mondo intellettuale, e un dialogo tra due giganti della filosofia contemporanea.
Da qualche parte Severino ha scritto che Heidegger è il più grande pensatore del Novecento. Chiedo conferma: «Non mi sono mai posto una domanda di questo genere -risponde pacato-. Insieme ad Heidegger mi interessai al neopositivismo, che mi sembrava una filosofia molto seria. A me interessava il panorama della filosofia contemporanea, non tanto vedere chi fosse “l’emergente”. Ma, ora che ci penso, devo aver scritto da qualche parte che Heidegger è il maggiore filosofo del Novecento». Ride.
E a proposito delle accuse di antisemitismo fatte ad Heidegger? Nei Quaderni neri si trovano note in cui gli Ebrei sono definiti popolo sradicato, “metafisico” per eccellenza. Donatella Di Cesare, studiosa di Heidegger, ha definito la filosofia del maestro di Turingia: “ontologicamente nazista”.
«Non sono d’accordo -risponde Severino- Le critiche di Heidegger al semitismo rientrano alle critiche che Heidegger rivolge all’intero Occidente. È la stessa critica che Heidegger rivolge al Cristianesimo, alla Metafisca, alla Tecnica. E che rivolge al nazionalsocialismo. Quando parla di vicinanza tra camere a gas e sistema di produzione industriale è chiaro che include anche il nazionalsocialismo. Oh intendiamoci, che lui abbia avuto queste attrazioni non fa meraviglia. Se pensiamo che a quel tempo Churchill ammirava Hitler, la Chiesa in Germania pure, e perfino il Partito Socialista Tedesco era favorevole a Hitler. Allora, se ci portiamo a quel tempo, in una Germania ridotta in quei termini, che uno possa vedere nel movimento nazionalsocialista una forma di riscatto, non è che sia così terrificante e sorprendente».
***
Severino filosoficamente dice il contrario di Heidegger. La cosa strana è che alcuni tendono a vedere molte similtudini tra i due pensatori, che invece sono precisamente all’opposto. Heidegger ritiene che l’Essere sia temporale, storico, che il Nulla insidi ogni istante una verità che si rivela solo a tratti, in alcuni momenti epifanici. Per Heidegger la verità è “a-letheia”, non-nascondimento di un essere che si svela come “evento” non preannunciato, e poi si dimentica. Heidegger pensa che tutta la filosofia occidentale, la metafisica, con la sua pretesa di trovare verità universali e valide fuori dal tempo sia una “dimenticanza” dell’essere.
Severino pensa invece che tutto sia già nell’eterno. Che un’ombra di un secondo o un’unghia caduta abbiano una consistenza inscalfibile. Che tutte le cose, anche le più labili e apparenti abbiano una super-sostanzialità che le consegna, ipso facto, all’eterno. E allora com’è che, per esempio il filosofo Giacomo Marramao ha scritto che Severino è una sorta di “heideggeriano in Italia”? «Si vede che Marramao non ha letto quello che ho scritto. In una telefonata mi ha anche detto che è perfettamente d’accordo con me. Non capisco come possa accadere, e non so come mai ebbe a scrivere questa cosa». Ridacchia gentilmente, e precisa: «poi Marramao è bravo eh».
***
Severino ha rivolto all’allievo più eminente di Heidegger, Hans Georg Gadamer, l’autore di Verità e Metodo, la domanda più scomoda che gli si potesse rivolgere: «Eravamo qui a Brescia -narra Severino- eravamo in piazza del Duomo e lui ammirava il Duomo vecchio, che è una delizia. E io gli dissi: “Heidegger continua ad affermare che l’essere è niente (nel senso del nulla dell’ente), il che vuol dire che non è nihil absolutum”. Gadamer assentì. “D’altra parte è ancora più ovvio che per Heidegger l’ente, quando è, non è un nulla assoluto”. Anche in questo caso Gadamer assentì. “Allora sia l’essere che l’ente hanno in comune il non essere un nulla assoluto. Quindi c’è una dimensione che include entrambi”».
«L’essere di Heidegger -conclude Severino- non è l’orizzonte omnicomprensivo in relazione al quale l’indagine deve rapportarsi. Ma si trova, a sua volta, all’interno di un orizzonte onnicomprensivo che include i termini di quella che Heidegger chiama “differenza ontologica”, ovvero sia l’essere che l’ente». E che disse Gadamer? «Non rispose».
Quindi Heidegger presupporrebbe una super-sostanzialità delle cose, ma non riuscirebbe a dirla né a pensarla? «Una super-positività, o una super-ontica -spiega dolcemente Severino- all’interno della quale si collocherebbe, se stesse in piedi, la “differenza ontologica” tra essere e ente. Se questa differenza vuol dire la distinzione tra il “ciò che” e l’”è” allora siamo d’accordo. Ma se questo “è” ha la pretesa di potersi separare dalle determinazioni ontiche e costituirsi in autonomia allora qui i problemi crescono. Perché la prima cosa da chiedere ad Heidegger è in base a cosa afferma l’esistenza di questo Essere sganciato dalle sue determinazioni ontiche». In breve la critica che Severino rivolge ad Heidegger è di non aver pensato così radicalmente, e a fondo, come Severino.
***
Severino ha sopra il caminetto un grande quadro che raffigura Giove, con in mano i fulmini e a fianco l’aquila, simboli rispettivamente di potenza e di illuminazione. Severino non è modesto, anzi, crede che un pensatore modesto non possa essere un pensatore onesto. Scrive in un suo libro: “il cammino che tento è un cammino intentato”, e intende che nessuno, nella storia della filosofia, ha mai pensato quello che ha pensato lui. Poi dice: cammino, mah, cammino. Non cammina, Severino, né torna all’origine della filosofia per trovare tracce di inizi traditi. Non è questo il movimento del pensiero di Severino. “Il mio non è un cammino, è l’intuizione” (“Noeo” vuol dire quasi toccare) della Struttura originaria. La struttura originaria è il suo Libro del 1958, nel quale aveva già sviluppato il nucleo della sua filosofia. Il suo più che un cammino è un corpo a corpo con il linguaggio, con la storia della filosofia, con i temi filosofici per affermare quell’intuzione in tutti i campi del theorein.
È stato a lungo definito “neo Parmenideo”, ma Severino è ancora più radicale. Parmenide dice: “l’essere è, il non essere non è”. Il cambiamento non “è” verità, le cose del mondo prima sono e poi muoiono, sono non essere. La “doxa”, l’opinione, è illusione.
Severino invece sostiene che pensare che le cose non siano e dopo siano, e poi ancora scompaiano, è la follia d’Occidente, è “fede nella morte”. Perché tutto è eterno.
Ovviamente la filosofia di Severino è inconciliabile con l’idea di Dio. E infatti il libro gli provocò una convocazione presso la il Sant’Uffizio. Fu espulso dall’Università Cattolica, con molta cortesia (gli furono offerti tè e pasticcini), ma tecnicamente come eretico. Uno dei giudici, il professor Enrico Nicoletti, abbandonò l’abito talare dopo aver approfondito le sue idee. Severino andò a insegnare a Venezia.
Professore, se tutto è eterno, la cacca è eterna? «Ma certo che la cacca è eterna, se non ci fossero le cose più umili non ci sarebbero quelle più alte». Severino ricorda le discussioni tra i teologi medievali su che fine avrebbero fatto, in Paradiso, quindi nell’eterno, gli escrementi.
Ma fatto sta che a me Severino sembra un pagano di Sicilia, fatto e finito anche se lui disapproverebbe la definizione. A proposito di Sicilia, la famiglia del padre di Severino abitava sulla stessa strada di Luigi Capuana. Emanuele l’eretico aveva due zii gesuiti. Una volta ne andò a trovare uno, che non aveva mai visto: «Era già vecchio, mi ricordo che ho suonato al campanello del collegio dei Gesuiti di Messina. e mi hanno detto “è su in terrazzo”. Andai su e dissi: “Zio, sono Emanuele, suo nipote”. Mi ha abbracciato, e la prima cosa che mi ha detto è stata: “quel disgraziato di Garibaldi che è venuto In Sicilia a fare?”».
***
Severino afferma: io sono irrevocabilmente eterno, siamo tutti irrevocabilmente eterni. Il dispiegarsi infinito dell’essente è la Gloria (titolo di un suo libro recente: i suoi testi esoterici escono per Adelphi, quelli essoterici per Rizzoli), trovare il linguaggio per dire questa Gloria è gioia. Gli domando se c’è qualcosa di contemplativo, mistico, che prende i sensi, in questa Gloria? Siamo all’Estasi della beata Lodovica Pavoni? Ride e ride.
«Nulla di mistico, nulla di sentimentale, tantomeno di fantastico. La Gloria è un qualcosa che è implicato nella struttura originaria di quello che chiamo “destino”. E non uso questa parola per recuperare certe tonalità affettive. Ma perché i greci, che hanno recuperato il concetto di sapere incontrovertibile. I greci lo chiamano “Episteme tes aletheias”. Heidegger studia la parola “a-letheia”, ma non studia altrettanto bene la parola “epi-steme”. “Episteme tes aletheias” lo traduciamo con “scienza della verità”, lasciando da parte la densità semantica della parola “episteme”. Lo “-steme”, è una sostantivizzazione di “istamai”, che vuol dire “sto”, dalla radice indoeuropea “sta”, stare. Lo Stato. “Epì” vuol dire: sopra. Quindi “episteme”, vuol dire: “lo stare sopra”. Per “a-letheia” basta aprire un vocabolario greco (non occorre Heidegger) “a-lethe”, non nascondimento. Quindi “Episteme tes aletheias” vuol dire: “Lo star sopra da parte del non nascosto”».
«La parola “destino” la uso perché è essa stessa costruita in modo analogo a “episteme”. Quello “-stino” è una sostivizzazione della radice “sta”. E quel “de” non è un moto da luogo, ma lo intendo come intensificativo. In latino esiste “de-vincere”, vincere in modo totale, “de-amare”, che vuol dire amare in modo pieno. Destino vuol dire: “pienamente stante”. Ho detto prima: la Gloria è implicata necessariamente dalla struttura originaria del destino. Quindi: la struttura originaria del destino è la struttura originaria del pienamente stante. Questa è l’enunciazione, ma bisogna vedere in concreto perché le cose stanno così, perché non credo che sia filosofia quella che si confonde con la letteratura o con gli aforismi. Quella può essere cultura filosofica, importante o necessaria. Ma una filosofia sentimental-letteraria si può chiamare così solo insistendo sul “filein”, sull’amore e non sulla “sofia”, la sapienza». Ride.
***
In treno conosco una ricercatrice di filosofia morale. Richiudendo il portatile mi fa: «Per me l’eternità dell’essere è un’opera di un grande innamorato. Penso che Severino abbia inventato la sua filosofia per sua moglie». Giro la domanda al filosofo. Che ride: «No, anche se sono stato molto innamorato di mia moglie. Comunque no. Questo sarebbe un modo di vedere la filosofia come un effetto dei sentimenti. E allora si potrebbe dire che la filosofia è nella mente, la mente è condizionata dal cervello, dal linguaggio, dalle vicissitudini familiari, dalla società. No».
***
Severino ha in comune con Heidegger una riflessione profonda sulla tecnica. Per Heidegger la tecnica moderna è diversa dalla Téchne greca, è la prosecuzione del pensiero della metafisica (quello che dimentica l’essere) con mezzi di derivazione scientifica. È un non-pensiero uniformante, numerico, che fa ma non sa quel che fa.
Per Severino le cose non stanno così: «Partiamo da una definizione che Platone dà della “poiesis”. Dice: è quella causa (“aitia”) che fa passare una qualsiasi cosa dal non essere all’essere. Per lui tutte le tecniche sono poiesis. Allora, mentre Heidegger pone una differenza essenziale tra la tecnica greca e la tecnica che costruisce la diga sul Reno, credo che dimentichi il tratto comune. Sia quella sia questa sono forze che fanno passare dal non essere all’essere, e dall’essere al non essere. Che secondo me è il massimo inganno. A volte scrivo che questa forma di follia, la convinzione che le cose possano passare dal non essere all’essere, è radicalmente più profonda di ogni peccato originale. Non si tratta di una svista filosofica o culturale. Si tratta di quell’errare essenziale senza di cui d’altra parte non ci sarebbe la verità. Perché la verità, se non si vede come negazione dell’errare, è un balbettare innocente, o una semplice volontà che le cose vadano in un certo modo. Laddove la verità è la negazione incontrovertibile dell’errare.
L’uomo attende così tanto tempo per venire al mondo, perché ciò che sarebbe diventato uomo incontra delle resistenze che per lungo tempo risultano insuperabili e uccidono il tentativo di essere uomo. L’uomo per vivere deve escogitare quella tecnica originaria, che è la tecnica del vivere che consiste nello sfondamento di questa barriera (che poi sarà chiamata natura, che poi sarà chiamata il divino, il demonico, l’ostilità degli elementi e animali), deve volere il diventar altro di ciò che inizialmente lo uccide. Il gesto originario è quella tecnica che vince la tecnica originaria del demonico che uccide l’uomo. Una tecnica che alla fine prevale, dove l’uomo riesce alla fine a uccidere dio, il dio. La barriera ostacolante è stata poi vista come il dio, il sacro».
***
Severino sostiene che la vera globalizzazione è quella tecnica, non economica. Siamo già nell’epoca della dominazione tecnica? «Siamo soltanto ai primissimi inizi di questo tempo. Ci saremo pienamente quando la tecnica guidata dalla scienza moderna riuscirà ad essere una potenza di diritto e non solo di fatto. Quindi non una semplice prepotenza. E ci riuscirà solo se ascolta la voce del sottosuolo filosofico del nostro tempo. Cosa dice questa voce del sottosuolo? Mostra l’impossibilità dell’esistenza degli immutabili, che stanno al centro della tradizione culturale e filosofica dell’occidente. Questa voce dice: “la storicità del mondo rende impossibile Dio”. La voce del sottosuolo filosofico dice alla tecnica: “Guarda che davanti a te non esiste alcun limite che tu non possa superare”.
Oggi questa voce non è sentita ancora. La tecnica si trova come una prepotenza che ha accanto a sé gli ammonimenti della tradizione. Si trova essa stessa in una posizione instabile. È una tecnica al servizio del sistema capitalistico. Oppure, e questa è una variante interessante, pensiamo alla Cina. Lì c’è un capitalismo alle dipendenze di un sistema ideologico.
Fin tanto che la tecnica è di servizio a qualcosa non ha quello strapotere che oggi viene paventato. Occorre che la tecnica ascolti queste voci, e poi che si metta in moto un meccanismo in cui la tecnica, da servitrice, diventi il padrone che si serve magari anche del capitalismo, e della democrazia.
E lo scopo della tecnica non è uno scopo specifico, come quello di realizzare un mondo capitalista, un mondo comunista, un mondo cristiano. Lo scopo della tecnica è quello di aumentare all’infinito la capacità di realizzare scopi. Quando questa volontà di incremento indefinito di realizzare scopi diventerà lo scopo allora sì, quello sarà il momento di dominazione autentica della tecnica».
***
Mi viene in mente il caso di Noa Pothoven, sul quale ha aleggiato la notizia -poi rivelatasi falsa- di eutanasia. Notevole che di fronte a questa parola associata a una diciassettenne malata di depressione i media mondiali non avessero una chiave intrerpretativa forte, né di condanna, né di giustificazione. Sembra un non-luogo a procedere della cultura contemporanea: «È uno dei tanti fenomeni che accadono in un’epoca di grande transizione. Un’ epoca di estremo interesse, dove la stessa superficialità delle masse ha delle ragioni profonde. Epoca dovuta al fatto che c’è stato l’addio alla tradizione. Il sottosuolo filosofico mostra l’impossibilità dei valori assoluti, dei limiti assoluti. Da un lato si sta abbandonando la dimensione della tradizione Occidentale, dall’altro non si è ancora fatta avanti la dominazione autentica della tecnica. Tutto questo spiega i comportamenti di sbandamento, e anche di imbecilimento, delle masse». E gli domando a bruciapelo: lei si è mai sentito depresso? «No. Nemmeno adesso, nonostante l’età».
***
Severino sostiene che la volontà, tutta la volontà, anche la volontà più buona, ha in sé una componente di violenza. Non si salvano l’amore per il prossimo, il pacifismo, l’ambientalismo. Tutto è sottoposto a questa legge, o meglio convinzione: «Ritorniamo alla definizione platonica di “poiesis”, anzi ritorniamo a quella fede nel diventar altro da parte delle cose del mondo. Siamo convinti che la realtà sia un continuo diventar altro. Quell’oggetto non è più quello che era prima. L’esempio che mi piace fare è la legna che diventa cenere. Quando qualcosa diventa altro non dobbiamo forse dire che si strappa da se stesso? Non c’è la quiete dello stare in sé, c’è lo strappo. E lo strappo allude alla violenza? Il diventar altro non è forse una invasione dell’altro? È la legna che ha invaso la cenere identificandosi all’esser cenere. e anche questa un’ invasione. Nel diventar altro in quanto tale c’è quella violenza che noi crediamo di trovare solo negli atti feroci. Anche nell’atto d’amore c’è violenza, perché c’è il voler far diventare altro. San Francesco e Hitler sono agli antipodi, ma lo sono come lo sono due lottatori sullo stesso terreno. Io non intendo identificare San Francesco e Hitler, ma intendo dire: e nell’uno e nell’altro c’è quel terreno senza il quale non potrebbe nemmeno prodursi il loro scontro».
***
Severino non è un parmenideo, l’abbiamo detto, ma se c’è un aggettivo che può andar bene per questo gentil eretico, è quello che ha usato Platone verso Parmenide: un pensatore “Terribile”. Perché mette in dubbio tutta la filosofia occidentale e orientale. E anche perché, appoggiata la testa al sedile dell’abbiocco sul treno di ritorno mi viene in mente la compresenza di tutto: il tuo urlo appena nato, il massacro di Auschwitz, lo spuntare di un’alba del 1296 a Firenze, i salti di ottava di un merlo che si è posato accanto a me ieri, una donna incinta che vomita gli organi interni subito dopo Hiroshima. Uno schiaffo preso da un bambino di nome Caio Giulio. La scritta Moor Effoc intravista dal giovane praticante di uno studio di avvocato in pausa pranzo, nella lurida Londra di metà Ottocento. L’attimo appena passato che mi sfreccia accanto in un loop di freni idraulici, sdeng. Tutti i paradossi di un tempo congelato, o esploso. Ma Severino non sarebbe d’accordo, perché questa sarebbe una falsa “gloria” costruita da un io costituito nella follia d’Occidente.
Quando ripasso a Brescia quasi quasi chiamo Severino e gli dico che ho dimenticato il cappello da lui: “prego dottore, passi pure. Verso le 11, 30 le va bene?”.