È lunedì, e naturalmente vi sarete già arrabbiati. Avete dormito poco, fate un lavoro che non vi piace, siete rimasti bloccati nel traffico del mattino, avete appena litigato col vostro partner per una stupidaggine. O semplicemente vi dà fastidio che sia iniziata la settimana con la sua routine. Che sia invidia, rancore o gelosia basta uno sguardo sbagliato per sfogare la rabbia verso qualcuno. L’umanità è sempre più incazzata. C’è rabbia verso i politici, i migranti, i giornali, le donne, i gay. E si augura la morte o lo stupro con la stessa facilità con cui un tempo si diceva buongiorno e buonasera. Una semplificazione qualunquista? Guardate i commenti nei social network per capire che ognuno di noi, a giro, vive il suo giorno di ordinaria follia. In mezzo a questo rancore c’è chi ha una soluzione. Non una sessione di yoga o una conversione al buddismo, ma un lavoro certosino per trasformare questa energia repressa in un’arma per difendere e riconquistare la nostra vita. Salvatore La Porta in “Elogio della rabbia” (Il Saggiatore) invita a un culto dell’ira che non sfoci nella ferocia. «La rabbia esiste anche se non è percepita. Pensiamo di avere una vita serena solo perché grossomodo viviamo quel che desideriamo. Ma quel grossomodo è il problema, perché crea un piccolo serbatoio di rancore dentro di noi che può esplodere o aumentare all’improvviso- Basta un periodo particolarmente difficile».
La rabbia è inevitabile?
Sì. Nessuna vita corrisponde ai nostri desideri e inevitabilmente lo scarto fra quel che vorremmo e quel che invece viviamo crea un attrito, una sensazione di fastidio nella nostra quotidianità. La vita è indefinibile, mentre noi invece desideriamo cose precise. E quando non si realizzano ci arrabbiamo per i motivi sbagliati. E dire che l’ira è un sentimento nobile.
Cioè?
Per sua natura l’ira è legata a un senso di giustizia. Non ci si arrabbia per qualcosa che va bene ma per qualcosa che va storto. Quando vediamo un torto l’ira si attiva. Mentre oggi spesso riserviamo il nostro senso di giustizia solo per cose che ci riguardano e non a favore di chiunque subisca un torto. E così si spiega la mentalità fascista, l’egoismo, l’oppressione dell’amato, la rabbia nei confronti dei più deboli o di chi pensiamo ci possa aggredire. Per anni invece l’ira ci ha portato ad abbracciare cause e persone molto lontane da noi.
Facciamo un esempio.
Per esempio la Shoa. A distanza di anni ancora ci arrabbiamo per quello che hanno subìto gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale ed è uno dei popoli più estranei alla cultura europea, abitanti in diaspora senza uno Stato. Eppure a pensarci proviamo ancora ira per i nazisti e la loro ferocia. Se ci pensate è lo stesso sentimento che spinge ora molte persone a sostenere la causa palestinese o ad arruolarsi per aiutare i curdi contro l’Isis.
Ma anche ad armarsi per combattere con l’Isis. Chi stabilisce quale ira sia giusta o sbagliata?
L’ira è sempre sincera, chi la pratica crede sempre di fare la cosa giusta. Non possiamo mai avere la certezza che la nostra scelta, il nostro senso di giustizia sia corretto. Per questo l’ira deve essere legata alla razionalità e alla capacità di discernere le cose nel mondo il più possibile. Più informazioni abbiamo riguardo il mondo intorno a noi più siamo prudenti nell’ira e a cercare di dirigerla con cura. Conoscere il mondo maggiormente ci impedisce di essere parziali. Il mondo è più vario della nostra routine casa-ufficio.
Come si fa concretamente?
Dobbiamo falsificare le nostre credenze, cercare fonti diverse da quello che ci viene detto e avere il coraggio di metterci in discussione. Spesso siamo arrabbiati per cose non vere dette da altri in modo convincente. Nell’antico testamento si preosuppone che solo la divinità che conosce il bene e il male in maniera assoluta possa dirigere l’Ira. Ma è un mito. L’uomo non ha la conoscenza assoluta per questo deve leggere, vedere film, ascoltare musica, viaggiare entrare in empatia con gli altri. La cultura ci permette di incanalare la rabbia in modo efficace. Così la prossima volta ci arrabbieremo per un’ingiustizia vera e non per un fraintendimento della mente.
Quando sentiamo l’ingiustizia solo per le cose che accadono a noi non proviamo ira, ma rancore che ci avvelena dentro giorno per giorno. Sarà anche difficile ma l’empatia è l’unica porta per trasformare il rancore in ira positiva. Più la mia empatia si espande più tendo a usare l’ira come senso di giustizia nei confronti di estranei e di alti ideali
Facile a dirsi, difficile non arrabbiarsi nella quotidianità.
È questo il problema. Quando sentiamo l’ingiustizia solo per le cose che accadono a noi non proviamo ira, ma rancore che ci avvelena dentro giorno per giorno. Sarà anche difficile ma l’empatia è l’unica porta per trasformare il rancore in ira positiva. Più la mia empatia si espande più tendo a usare l’ira come senso di giustizia nei confronti di estranei e di alti ideali. E l’ira positiva è quella che ti fa uscire per strada a manifestare contro le ingiustizie o ad agire quando nel bus, per strada, al lavoro, al supermercato vediamo qualcuno subire un torto. Ogni volta che si ha uno scatto d’ira bisogna capire se si sta danneggiando i più deboli o i più forti.Siamo più arrabbiati rispetto ai nostri genitori e nonni?
La nostra è un’ira più malata. Prendiamo ad esempio il femminicidio. Grazie alla tecnologia possiamo continuamente controllare, verificare, vigilare sul comportamento delle persone che amiamo. Abbiamo un rapporto ossessivo nei confronti dell’amore. Se ho bisogno di sapere dove sia, o cosa stia facendo la persona di cui sono innamorato, basta cercarla nel telefono. E quando questa ossessione viene frustrata perché magari quella persona non risponde banalmente a un messaggio, capita che in pochi attimi il tutto degeneri in un’ira fortissima. E se quella persona ha tradito o si è allontanata perché non prova più niente allora il rancore può portarci a fare cose terribili.Nell’epoca dei populismi e dei cultori dell’odio, non credi sia scivoloso fare un elogio della rabbia? Qualcuno potrebbe fermarsi al titolo.
Vero, ma va fatta. Perché con la rabbia ci dobbiamo convivere, non possiamo eliminarla del tutto. E in questa fase storica sta montando in maniera cieca perché esperti dell’odio ci incanalano il loro rancore mascherandolo con il buon senso. Abbiamo la visione sempre più ristretta sulle cose del mondo. Ci fermiamo alla nostra quotidianità. Quello è diventato il nostro mondo e guai a chi ci viene a dire come parcheggiamo la macchina o se saltiamo la fila alle poste. E siamo solo agli inizi. Dovremmo fare come nel judo.Cioè?
Quando un bambino sale per la prima volta sul tatami, gli si dice che tutto quello che imparerà facendo il judo non lo dovrà mai fare per strada, se non in casi estremi. L’ira è come un arte marziale, bisogna comprendere come nasce e averne una cura estrema usandola solo in determinati casi, quando sentiamo che realmente c’è un’ingiustizia. Se conosci il mondo agisci solo quando credi sia realmente necessario. I cani piccoli abbaiano, quelli grandi non ne hanno bisogno. Bisognerebbe imparare dal popolo curdo nel Rojava.Sanno gestire bene la rabbia?
Quel popolo negli ultimi decenni è stato smembrato maltrattato, distrutto. Ne avrebbe di ragioni per arrabbiarsi. Ma invece di lasciarsi andare a un odio indiscriminato verso tutti ha costruito un modello alternativo e lo sta difendendo. Tutti sono alla pari: le donne combattono studiano e vivono come gli uomini. C’è una divisione del lavoro dei beni quanto più solidale possibile.Con tutto il rispetto per il Rojava, forse servirebbe un modello più vicino a noi per capire come gesitre la rabbia.
E allora prendete ad esempio Gesù. Nei Vangeli più volte si vede Gesù iracondo. È rabbioso quando disconosce i genitori e li insulta davanti ai rabbini del tempio di Gerusalemme, si infuria con i suoi discepoli per la loro mancanza di fede, per la fame continua che li tormenta, per il loro conformismo. Addirittura maledice un albero di fico, promette la lapidazione dei suoi nemici, predice il fuoco e la spada e scaccia i mercanti dal tempio. Ma non si infuria mai con i deboli. Mai. E quando la sua rabbia potrebbe mettere a repentaglio la vita dei suoi discepoli nell’orto Getsemani, non si arrabbia contro chi l’ha tradito, ma trattiene Pietro dall’usare la spada, riattacca l’orecchio del soldato e si consegna ai suoi nemici.