MillenialsRaffaele Alberto Ventura: “Nella politica di oggi non serve la rabbia, ma nuove strategie”

L'autore della "Teoria della Classe Disagiata" ha recentemente pubblicato un nuovo saggio. Si intitola "La Guerra di Tutti" e parla di complottismo, di capitalismo e di polarizzazione politica

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La schiera di analisti delle generazioni Y e Z, ovvero i Millennials e i pure digital native, si allarga quotidianamente, dai talk show ai libri di self-help. Tra le poche voci che meritano di essere ascoltate figura sicuramente Raffaele Alberto Ventura, classe 1983 – e quindi, tecnicamente, anch’esso Millennial – autore nel 2017 di uno degli esordi più interessanti della nuova saggistica italiana, con la sua “Teoria della classe disagiata” (minimum fax). Residente a Parigi – e quindi, tecnicamente, “cervello in fuga”, secondo le poco fantasiose cronache italiche – dove collabora con il Groupe d’études géopolitiques e la rivista Esprit, oltre alla sua pagina di culto tra i fan Eschaton cura una rubrica per Wired.

A due anni dall’esordio, Ventura allarga il suo spettro d’analisi pubblicando sempre per il solito editore “La Guerra di Tutti”. In questa intervista, cominciata in un noto ristorante ebraico del Marais e finita via mail, ci racconta fuor di metafora alcuni passaggi chiave del suo testo ricco di rimandi ai classici e alla contemporaneità.

“La Guerra di Tutti” parla molto del complottismo, suggerendo sostanzialmente l’idea che spesso il complotto viene proprio da chi al complotto grida. Tra i vari esempi citi anche l’attività comunicativa precedente al referendum che è costato a Renzi metà della sua credibilità politica e a noi un Paese – che tu descrivi comunque come ‘ormai saldamente indirizzato verso un declino terminale’ – forse finalmente governabile. In uno dei multiversi possibili, che Italia sarebbe uscita da un Sì a quella chiamata alle urne?
Dire che l’Italia è “ingovernabile”, come si diceva all’epoca della campagna sul referendum, dice soltanto metà della verità: perché di fatto si è governato il paese, si sono fatte persino delle riforme che hanno precarizzato il mercato del lavoro, ma il problema è l’altra parte della verità, appunto, ovvero che la governabilità del paese si ottiene a un costo altissimo, attraverso un intricato gioco di scambi che porta sempre a riforme fatte a metà, a clientelismi ad ogni livello, e soprattutto col pretesto dell’ingovernabilità nessuno si prende mai le responsabilità. Ecco, io avrei voluto che vincesse il SI proprio perché sarebbe stato giusto che l’attuale governo si prendesse in pieno le sue responsabilità, facesse fino in fondo le sue riforme, realizzasse davvero la sua visione politica: ammesso che ne abbia una. Invece continueremo molto a lungo a scaricare il barile, e questa è probabilmente la cosa che indebolisce di più le democrazie.

All’inizio del tuo nuovo libro parli di ‘reductio ad hitlerum’ per gran parte delle conversazioni polarizzate ai tempi di facebook. Quindi, la retorica dell’antifascismo ha fatto il suo tempo? Pensi sia ancora conveniente utilizzare quella dicotomia dialettica?
Una cosa è l’antifascismo, un’altra la sua retorica e un’altra ancora l’abuso generalizzato che facciamo dei riferimenti al fascismo: ormai anche i fascisti accusano gli antifascisti di fascismo, se ci fai caso; quindi sicuramente è un’arma spuntata, o magari di arma a doppio taglio, soprattutto se mi parli di “convenienza” ovvero di efficacia nel dibattito. Oggi se dai del fascista a un fascista, uno che magari si dichiara lui stesso fascista, finisci per fare tu la figura dell’aggressore o del pignolo. I rapporti di forza stanno cambiando e certi valori dell’antifascismo sembrano essere sempre meno condivisi. D’altra parte si tratta del fondamento meta-politico, costituente, dell’ordinamento in cui viviamo ancora oggi. Se davvero l’antifascismo ha fatto il suo tempo, c’è da preoccuparsi e chiedersi cosa verrà dopo.

Nel caso del fact-checking, i principali argomenti del sapere legittimo sono gli stessi invocati dai più accesi cercatori di “verità alternative”: bisogna dubitare di tutto, costruirsi il proprio sapere su misura, eccetera. Questo crea mostri

Quando parli di fact-checking, lo additi tra i problemi del nostro tempo, non tra le soluzioni. Dato che Mentana e David Puente non ci sentono, si può dire, ipersemplificando, che la Verità è sopravvalutata? Che forse ha ragione Confucio a metterla in secondo piano rispetto all’Armonia?
Sicuramente io ho una visione molto “politica” della verità, ma questo peraltro è diventato necessario in un’epoca in cui non esiste più una sola e unica fonte di autorità legittima. E quindi dobbiamo arrangiarci, come dici tu cercare un’armonia tra visioni del mondo. Nel caso del fact-checking, attiro l’attenzione su come i principali argomenti del sapere legittimo sono gli stessi invocati dai più accesi cercatori di “verità alternative”: bisogna dubitare di tutto, costruirsi il proprio sapere su misura, eccetera. Questo crea dei mostri. E finisci con gli svitati su Internet che mimano letteralmente le pose di Burioni: gli economisti della domenica che invitano gli altri a studiare l’economia, o certi piccoli guru che non esitano a ricorrere al principio di autorità per mettere a tacere le critiche. Alla faccia dei “professoroni snob”…

Nel tuo saggio parli di un mondo in cui anche il dissenso soggiace alle logiche della gamification, dove le manifestazioni sovversive vengono documentate con un gusto estetico perfettamente allineato alla narrazione dominante di chi i sovversivi intenderebbero attaccare, e il balaclava diventa allora un’icona stinta peggio del logo cheguevariano sulle magliette, o la maschera anonimizzante di V per Vendetta. Ecco, ti chiedo: in un mondo siffatto, esiste ancora un ultimo, possibile atto genuino di antagonismo? O il capitalismo ha già previsto tutto, lascia sfogare rivolte fittizie in un contesto di governamentalità, come ai tempi dei Saturnalia a Roma, e quindi anche l’atto più estremo è ormai davvero catalogabile in un rassicurante quadrato della matrice di Neo?
Ma abbiamo davvero bisogno della categoria di “antagonismo”? Non sono tanto sicuro. Contro chi? Contro cosa? Semmai abbiamo bisogno di progettualità, di strategia. E anche la domanda se esista un fuori dal capitalismo, in fondo, è mal posta: anche perché tutti usano questa parola in modo diverso, e oggi parlare male del capitalismo si fa benissimo tra le élite o tra i movimenti di destra, perché questa parola è diventata semplicemente un ricettacolo dell’idea di male. Inoltre è chiaro che se di fronte hai la Cina, che sta portando il capitalismo al suo punto di perfezionamento più alto, non puoi pensare a un’uscita unilaterale da un sistema che fa prevalere proprio le scale di produzione più ampie. Resta sicuramente uno spazio, oggi, per una riflessione sulla legge del valore (che governa lo scambio ineguale tra gli individui e le nazioni) e sulla logica del progresso, ma non possiamo permetterci nessuna ingenuità. Oggi lottiamo per sopravvivere.

Le elezioni europee sono appena passate. Qual è la forza politica che occupa lo spazio più innovativo nello scacchiere continentale? E soprattutto: esiste ancora un cluster di valori non contraddittori da aggregare per una nuova proposta politica?
Nel libro io propongo di ripartire dall’unica “volontà generale” sicuramente condivisa in una società lacerata: la tolleranza, la volontà di convivere assieme. Non c’è altra volontà che possa metterci tutti d’accordo. Cominciamo da qui.

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