È il segreto di Pulcinella dell’Università italiana. Tutti lo conoscono, ma fanno come se nulla fosse. Fin quando non arriva un’inchiesta che per qualche giorno fa indignare l’opinione pubblica. E poi si ricomincia, nell’omertà generale. I “baroni” negli atenei non sono mai scomparsi, ma vivono e prosperano. Se ci si accoda al professore giusto e al suo “clan” si può fare carriera, sennò per avere una cattedra o un assegno di ricerca decente bisogna emigrare. O rispetti la consuetudine o non farai mai carriera. E a poco a poco vieni emarginato senza mai poter tenere il corso per cui avresti i titoli. Non tutti, ma tanti si comportano così: promuovono il discepolo fedele anche se al concorso si è presentato un altro più meritevole. Non importa se c’è un commissario esterno. Anzi, si adeguerà alla decisione presa dai “baroni” dell’ateneo per vedersi ricambiare il favore quando servirà. L’ultimo esempio sembra venire dall’indagine della procura di Catania. Dieci indagati per corruzione e turbativa d’asta tra cui il rettore dell’Università. Secondo l’accusa, i direttori di dipartimento avrebbero truccato 27 concorsi per professori ordinari, associati e ricercatori. Con loro sono indagati altri 40 professori da atenei provenienti da tutta Italia: Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona. Ovvero tutti i commissari esterni che venivano di volta in volta nell’Università di Catania.
Chiariamoci: siamo garantisti fino all’ultimo grado di giudizio, ma non ingenui. Sono tante, tantissime le segnalazioni arrivate ieri di ricercatori pronti a raccontare come nella loro università funziona in modo simile. Forse non si viola sempre la legge, ma si consolida un sistema politico fatto di correnti, prescelti, parenti ed ostracismo. Ammettiamo che sia tutto legale, sarà la magistratura a dirlo. Ma la meritocrazia viene violentata ogni giorno. «Ci sono solo due modi per cui un candidato esterno riesce a vincere dottorato: se non ci sono candidati interni o se ce ne sono due appartenenti a “clan” diversi nel dipartimento. Per evitare di farsi male a vicenda si sceglie quello arrivato da fuori. Anche se non lo merita», rivela con poco stupore un ricercatore della Ca’ Foscari, che ha deciso di parlare in cambio dell’anonimato. «La storia di Catania era già nota da tempo agli addetti ai lavori. Il malcostume dei concorsi pilotati è sistematico. Nessun ateneo può dirsi esente da questo tipo di prassi. Qui alla Ca’ Foscari era così fino a pochissimi anni fa. Poi è stato posto un vincolo che esclude candidati interni da alcuni concorsi importanti. Chissà perché poi quel vincolo è diventato opzionale».
Come il Consiglio superiore della magistratura e la politica anche il mondo universitario è fatto di correnti che mantengono il potere
La lotta non è sempre quella macchiettistica tra candidato preparatissimo di un’altra università e lo stupido raccomandato cresciuto dai “baroni” dell’ateneo. Ma la certezza è che a parità di curriculum importanti si sceglie la persona più vicina al barone di riferimento. Il problema è che il giudizio è sempre discrezionale. «Le decisioni vengono prese a livello politico con accordi preconfezionati. Le commissioni sono composte da tre persone e i due membri esterni vengono selezionati con cura dal membro interno in modo che siano d’accordo con lui sull’esito finale del concorso» spiega il ricercatore della Ca Foscari. «Per evitare di essere scoperti ci si mette d’accordo prima su chi dovrà essere il vincitore del bando» . Ma perché uno o due esterni dovrebbero appoggiare un raccomandato? «Perché si fanno delle promesse reciproche: appoggi per concorsi che si dovranno tenere in avvenire nell’ateneo da cui l’esterno proviene. Ma in gioco c’è anche l’avanzamento di carriera. Perché spesso i commissari sono professori associati che aspirano a diventare ordinari. Oppure semplice ragioni di lobby, ed è questo che fa paura. Come il Consiglio superiore della magistratura e la politica anche il mondo universitario è fatto di correnti che mantengono il potere accademico».
Spesso la prima scrematura per far fuori i candidati indesiderati avviene prima dell’orale. Quando si fa una domanda di dottorato il candidato deve presentare il curriculum, le sue pubblicazioni e il progetto di ricerca su cui lavorerà negli anni. La commissione valuta e se ritiene pertinenti i titoli passano all’orale. E tra un candidato allevato dal barone e uno senza santi in paradiso vince sempre il primo. «Ho partecipato in contemporanea a tre bandi di dottorato in altrettanti atenei. Nell’università dove mi sono formato non sono passato neanche all’orale. Ma con gli stessi titoli ho vinto il bando negli altri due atenei più prestigiosi», spiega un ricercatore della Normale. «Nel mio ateneo è entrata li pupillo del professore interno della commissione. Voglio pensare sia solo un caso». Anche noi, pur notando che sono numerose le coppie di professori all’interno della stessa università. Nulla di male, anche la Corte Costituzionale ha chiarito che marito e moglie possono partecipare a un concorso nello stesso dipartimento, ma come si può tutelare uno aspirante dottorando che deve concorrere contro lo studente della moglie del commissario interno? Va bene che l’amore è cieco, ma nei dipartimenti universitari sembra vederci benissimo.
Un mio professore mi ha fermato tutto preoccupato dicendomi: ”Ma perché non mi hai detto che hai fatto la domanda in quell’ateneo? Se vuoi faccio la telefonata così stai tranquilla
Alcuni “baroni” non si limitano a influenzare le vittorie solo nel loro ateneo, ma se hanno amici in altre università, cercano di piazzare il loro protetto. Ogni candidato deve consegnare alla commissione giudicante anche una lettera di presentazione da parte del suo professore che spesso aggiunge anche una telefonata per “galateo istituzionale”, non si sa mai. «Un mio professore mi ha fermato tutto preoccupato dicendomi: ”Ma perché non mi hai detto che hai fatto la domanda in quell’ateneo? Se vuoi faccio la telefonata così stai tranquilla”», confessa una ricercatrice di un’università del centro Italia. «Gli ho imposto di non farlo perché volevo farcela con le mie forze ed evitare casini». La soluzione? Eliminare la discrezionalità della composizione delle commissioni. Bisognerebbe definire una lista di candidati commissari a livello nazionale e che venissero sorteggiati per settore disciplinare. Ma l’organo principale che dovrebbe discutere di questa cosa è il Consiglio dell’università, un organo nazionale che riunisce tutte le università nazionali. Ma lì ci sono proprio i “baroni”. Un cane che si morde la coda. La politica potrebbe forzare la mano ma già immaginiamo i cortei in cui si griderebbe all’attentato all’autonomia degli atenei. Sarebbe facile, facilissimo opporsi in nome della libertà. Oppure si potrebbe seguire il suggerimento del professore che nel film La meglio gioventù invitava uno studente ambizioso di medicina ad andarsene: «Vada a studiare a Londra, a Parigi, vada in America, se ha le possibilità, ma lasci questo Paese. L’Italia è un Paese da distruggere: un posto bello e inutile, destinato a morire».
Qualcuno potrebbe obiettare che si è sempre fatto così. Anche il grande fisico Ettore Majorana, scomparso nel 1938 ha ottenuto una cattedra grazie a una raccomandazione. Majorana era uno dei ragazzi di via Panisperna, cresciuto sotto l’ala protettiva di Enrico Fermi. E proprio Fermi nel 1937 presiedette la Commissione che doveva assegnare tre cattedre di Fisica Teorica che andarono a tre suoi pupilli Gian Carlo Wick inviato a Palermo, Giulio Racah a Pisa)e Giovanni Gentile, figlio del filosofo a Milano. Non contento Fermi chiese di assegnare una cattedra anche a Majorana, nonostante il concorso ne prevedesse solo tre. Il ministro dell’Istruzione accolse la richiesta di Fermi e nominò Majorana professore ordinario di Fisica Teorica all’Università di Napoli. Ora in quel caso si trattava delle migliori menti della loro generazione. Non possiamo dire con certezza che lo siano anche i raccomandati di oggi.