IntervistaGli sfruttati non sanno di esserlo: ecco perché non si ribellano

Chiara Volpato, docente di Psicologia dei Processi Sociali all’Università di Milano-Bicocca, si chiede quali siano “Le radici psicologiche della disuguaglianza”: “Non ci ribella alla propria condizione perché non la si riconosce”

Per alcune forze politiche e buona parte della mentalità comune, il principale problema della nostra epoca sono i flussi migratori. E se invece la vera questione fosse la disuguaglianza socio-economica? Ormai già da qualche anno, Thomas Piketty ha riportato l’attenzione su un argomento che sembrava ormai relegato al secolo scorso. Il Capitale nei XXI secolo, però, ha forse riaperto ma non esaurito il dibattito, che negli ultimi anni si è arricchito di diversi studi che hanno affrontato il tema da angolazioni tutt’altro che banali. Come la rivista Nature, che ha dedicato un intero speciale alla disuguaglianza all’interno della comunità scientifica, o gli interventi del premio Nobel Joseph Stiglitz e del neurobiologo Robert Sapolsky pubblicati da Le Scienze questo febbraio, che insieme ad altri esperti definiscono un quadro in cui l’eccessiva sperequazione economica diventa negativa non solo per la società, ma anche per la salute e persino per l’ambiente.

Nel solco di questa riflessione si inserisce anche Chiara Volpato, docente di Psicologia dei Processi Sociali all’Università di Milano-Bicocca, che dal suo ambito di competenza specifico, la psicologia sociale, si chiede quali siano Le radici psicologiche della disuguaglianza aprendo a diverse domande che potremmo definire “da un milione di dollari”: perché gli sfruttati non si ribellano? Perché non ne hanno i mezzi? Per paura? O ci sono ragioni più profonde? E perché i privilegiati percepiscono la loro superiorità come legittima? Come si costruiscono le disuguaglianze? E perché le alimentiamo, nonostante i loro effetti deleteri? Le abbiamo chiesto tutte queste cose, e molte altre.

In questo momento sono molti gli intellettuali che parlano di disuguaglianza. Ma mi interessa soprattutto il suo approccio da psicologa sociale. In definitiva: perché gli oppressi non si ribellano?
Gli psicologi sociali lo chiamano “l’enigma dell’accettazione della sottomissione”. Non ci si ribella per tante ragioni. Prima di tutto, non sempre si percepisce la disuguaglianza e, soprattutto, non la si percepisce pienamente. Molti studi degli ultimi anni ci mostrano, infatti, come ci siano delle distorsioni nella percezione della disuguaglianza, e in particolare quanto sia sottostimata.

Si pensa anche che sia in calo.
Thomas Piketty ha mostrato molto chiaramente come questo sia inesatto. Nei Paesi occidentali, negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale, le diseguaglianze socio economiche erano altissime. Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta invece – i “30 anni gloriosi” – queste disuguaglianze sono fortemente diminuite. Grazie alle guerre, ma anche per cause positive, come le politiche di redistribuzione della ricchezza che hanno accompagnato lo sviluppo economico di quegli anni. Negli anni Ottanta c’è stata l’inversione di tendenza, dovuta soprattutto a un cambiamento ideologico: in pratica, la vittoria del neoliberismo. Da lì è iniziato il processo che ci sta progressivamente riportando alla situazione di inizio Novecento.

Quindi non ci si ribella alla propria condizione perché non la si riconosce.
Non solo. Oltre alla consapevolezza c’è il giudizio: capire che esiste disparità non significa volerla cambiare. O meglio, non significa volerla cambiare in maniera sistemica. Nei Paesi occidentali, infatti, è molto forte la credenza nella mobilità sociale individuale. Si pensa che applicandosi molto, facendo molti sforzi e avendo determinate capacità si potrà salire nella scala sociale, saltare sull’ascensore e assicurarsi una vita migliore, per sé e soprattutto per i propri figli. Molto spesso, infatti, si ragiona in prospettiva familiare. Le persone pensano che, se si applicheranno molto, i loro figli avranno una vita migliore. Eppure noi sappiamo che negli ultimi decenni, a differenza del trentennio del dopoguerra, la mobilità sociale si è rivelata davvero scarsa. E si è diffusa, anzi, la percezione che i figli avranno una vita peggiore: un sentimento che ha interrotto bruscamente il patto di fiducia con la classe politica, generando le risposte populiste che ben conosciamo.

Ma se l’ascensore sociale è bloccato e la gente lo percepisce, perché non si oppone?
Perché il clima di ideologia egemone, in questo momento, è estremamente individualistico. La speranza nella mobilità individuale sopravvive e questo frena la partecipazione ad altre forme di lotta. Ognuno spera di essere lui a trovare il modo di camminare meglio degli altri. E finché gli appartenenti a una classe sociale svantaggiata hanno l’impressione di poter migliorare la propria situazione, possono accettare la disparità. L’ideologia del merito, del “Sii l’imprenditore di te stesso!” porta a sottovalutare quelle che sono le costrizioni sociali, ambientali e gli squilibri di partenza. Ci porta a pensare che la causa sia sempre dentro di noi: se ce la fai o meno, dipende solo dai tuoi mezzi, dalle tua capacità, dalla tua psicologia.

La speranza nella mobilità individuale sopravvive e questo frena la partecipazione ad altre forme di lotta. Ognuno spera di essere lui a trovare il modo di camminare meglio degli altri

Un concetto importante nel libro è proprio l’interiorizzazione dello svantaggio.
Certo: inizi a pensare che la colpa sia tua e ti accontenti di ciò che hai. E questo, alla lunga, frena a sua volta la mobilità.

Il neurobiologo Robert Sapolsky sottolinea le conseguenze delle disuguaglianze sulla salute fisica e psicologica delle persone.
Sono conseguenze fortissime. Dal punto di vista psicologico, nell’individuo che vive in una condizione svantaggiata, si crea un senso di colpa che porta alla perdita dell’autostima. La sensazione che si ha è di non poter controllare la propria vita, che sul piano psicologico è un fattore di crisi gravissimo. La percezione di non avere prospettive si riversa in una serie di comportamenti che si traducono, di fatto, nell’accettazione dello status quo.

Passiamo un attimo a considerare l’altro lato della medaglia. I privilegiati sanno di essere tali?
Spesso ci si rifiuta di riconoscere il vantaggio di partenza. Si tende a pensare che ciò che è nostro lo è per nostro merito, e chi non ha gli stessi privilegi, evidentemente non se li è meritati. Questo modo di pensare assolve, è deresponsabilizzante. Non è facile ammettere di essere partiti avvantaggiati (e questo vale anche per le questioni di genere). Si tratta di processi mentali ed emotivi per lo più inconsapevoli. Inoltre, diversi studi dimostrano che più ci si trova in alto nella scala sociale, più si è concentrati su se stessi, perché, di fatto, si ha meno bisogno degli altri.

Ma perché è così difficile ammettere di essere partiti con un vantaggio?
Perché probabilmente un senso di giustizia ce l’abbiamo tutti. Accettare questo privilegio responsabilizza troppo: ammettere di aver ottenuto qualcosa per pura fortuna implica la sensazione di dover restituire qualcosa indietro.

E poi c’è la “paura di cadere”…
È un sentimento presente in tutti i ceti sociali: la paura di perdere uno status sociale meno consolidato di quanto si voleva credere. Una paura che si traduce nell’adesione acritica nelle credenze meritocratiche, nel rifiuto di essere privilegiati, nell’aumento della distanza psicologica, culturale e sociale da chi è percepito come inferiore. La paura di cadere, naturalmente, si accentua nei periodi di crisi ed è particolarmente elevata oggi nei Paesi occidentali, dove ancora non si sono esaurite le conseguenze della recessione del 2008. Nei gruppi di alto status, l’instabilità produce un elevato stress fisiologico che si traduce in una serie di comportamenti che vanno dall’aumento dei favoritismi nei confronti della propria categoria alla ricerca di nuovi miti che legittimino la propria superiorità. Alcuni politici hanno manipolato questa paura per i propri fini, altri non hanno colto il suo impatto e la sua pericolosità, forse perché provengono da situazioni a loro volta privilegiate.

L’immagine di superiorità di cui godono i membri della classe avvantaggiata è però spesso condivisa e interiorizzata anche da chi privilegiato non è. In parole povere: perché “i ricchi” suscitano più ammirazione che rabbia?
Ci sono tanti studi che descrivono come i membri della classe privilegiata possano avere un’immagine di “superiorità” alla quale, paradossalmente, anche gli svantaggiati reagiscono con riverenza. Pierre Bourdieu spiega che il capitale non è solo quello economico, c’è anche il capitale sociale, il capitale culturale e quello simbolico. Il possesso di questi diversi tipi di capitale, soprattutto quando se ne gode fin dalla nascita, fa sì che le persone delle classi sociali favorite siano talmente a loro agio nel muoversi nel mondo che questo atteggiamento viene considerato una loro caratteristica naturale. Per quanto in genere poco amati, ai ricchi vengono infatti attribuite capacità, competenze e intelligenza che li collocano “legittimamente” in cima alla scala sociale. Ne deriva un senso di entitlement, dove la disuguaglianza trova una spiegazione. Il privilegio è meritato e va difeso. Al contrario, ai poveri queste competenze sono negate, anche se talvolta si attribuiscono loro tratti di socievolezza e moralità. Una strategia compensatoria per cui ogni classe sociale ha qualcosa di positivo. Ed ecco l’equilibrio, la percezione del sistema come “giusto”, il mantenimento dello status quo.

È ormai assodato che le disuguaglianze provocano sofferenze e infelicità. A livello individuale, c’è un legame tra aumento della disuguaglianza e aumento del malessere fisico e psichico. Diminuisce, invece, la fiducia sociale

E cosa ne pensa del mito, attualmente molto in voga, della meritocrazia?
Non è un concetto necessariamente sbagliato: è giusto che chi ha più competenze e conoscenze gestisca le situazioni, non è giusto pensare – come è diffuso nella mentalità corrente – che le persone che sono al potere se lo siano sempre meritato, trascurando il fatto che non tutti godono delle stesse condizioni di partenza.

Perché parlare di disuguaglianza crea così poca indignazione?
Perché non se ne parla nel modo giusto: si forniscono informazioni sulle disuguaglianze ma non si dice come affrontarle, soprattutto ai diretti interessati. Si crea così uno scoramento che diventa facilmente risentimento verso la classe politica o addirittura verso chi è più debole.

Quali sono gli effetti della disuguaglianza sul clima sociale?
È ormai assodato che le disuguaglianze provocano sofferenze e infelicità. A livello individuale, c’è un legame tra aumento della disuguaglianza e aumento del malessere fisico e psichico. Diminuisce, invece, la fiducia sociale. E con essa, diminuisce la partecipazione alla vita collettiva e alla gestione democratica del Paese. L’attuale incattivimento del clima sociale in Italia, a mio avviso, ha la sua matrice nella crescente disuguaglianza.

Cosa serve per far nascere un senso di ribellione?
Innanzitutto, avere la percezione della disuguaglianza e percepirla come ingiusta. Poi occorre sentire di avere qualcosa in comune con altri nella medesima situazione: creare un discorso di identità sociale, di identificazione con un gruppo col quale si hanno affinità. E poi è indispensabile la percezione di efficacia. Occorre pensare che il fatto di lottare insieme possa avere degli esiti efficaci. Dopo i grandi fallimenti del secolo scorso, i tentativi di cambiare le cose sono percepiti come velleitari e non realistici. Io credo, però, che la storia vada avanti per oscillazioni e che questo senso di sfiducia cambierà. Ora come ora, però, ci siamo ancora dentro in pieno.

Che cosa occorre per affrontare le disuguaglianze una volta per tutte?
Bisognerebbe attuare l’identificazione con l’umanità nella sua interezza. Abbiamo sempre pensato a delle identità con contorni ben definiti: l’identità operaia, quella italiana, quella europea. Ma le sfide che l’umanità ha davanti a sé – disuguaglianza, ambiente, migrazioni… – sono di portata ben più vasta, addirittura globale. E occorre affrontarle con questa consapevolezza.

Il suo libro è molto ricco di riferimenti letterari e cinematografici. Quanto è utile la letteratura per comprendere la psicologia sociale?
Nei testi letterari è racchiuso moltissimo sapere psicosociale. Io ho una prima laurea in lettere, con tesi in storia, che è la mia grande passione. Poi mi sono laureata in psicologia, e non a caso ho scelto la psicologia sociale, che è la branca più storica. Mi interessano i gruppi, i conflitti, le dinamiche sociali: tutti gli elementi psicologici che ci portano a capire come l’uomo vive la storia. Per tornare alla letteratura, Piketty, nel suo Capitale (al capitolo 7), riporta un brano di Papà Goriot di Balzac che è esemplare di come la letteratura possa descrivere in modo perfetto una condizione economica. Si tratta del brano in cui Vautrin spiega a Rastignac cosa può ottenere dai soldi che ha: a cosa può ambire laureandosi, diventando giudice, eccetera. E come la sua vita cambierebbe se invece si limitasse a sposare una ragazza ricca. Quelle pagine descrivono perfettamente le (scarse) possibilità che un individuo di metà ‘800 aveva di cambiare la propria condizione sociale. È un ritratto socio-economico perfetto, e lo troviamo in un romanzo.

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