Banditi ambientaliBolsonaro è l’ultimo dei boia: la deforestazione dell’Amazzonia va avanti da trent’anni (e non solo in Brasile)

Quando si parla di ambiente, il presidente del Brasile Jair Bolsonaro riesce sempre a distinguersi. La foresta Amazzonica dall’inizio dell’anno ad oggi ha perso circa 3700 km² per colpa della deforestazione, quasi sdoganata dell'ex generale. Di certo non l'unico colpevole di questo disastro

Quando si parla di ambiente, il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, in pieno stile Trump, ama far parlare di sé, nel bene e nel male. In questo caso specifico, gli vengono attribuiti, secondo le analisi dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali, dall’inizio dell’anno ad oggi circa 3700 km² di foresta Amazzonica depauperata, per un aumento superiore al 100% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

L’ex generale ha subito ribadito la sua posizione di contrarietà, screditando i dati dell’Istituto (di solito, fedeli alla realtà al 90%) e rassicurando sullo stato di salute della stessa foresta. Per essere chiari, Bolsonaro c’è dentro con tutte le scarpe: da quando è al potere, ha spesso sottolineato l’esigenza di sfruttare la foresta in modo ragionevole, affidando per esempio le riserve indigene dall’autogestione delle popolazioni autoctone al ministero dell’Agricoltura, oppure non usando premura alcuna sulla legge che vieta ai proprietari terrieri di disboscare più di un quinto dei loro possedimenti.

Dubbi sull’esistenza del cambiamento climatico, taciti nulla osta in grado di causare l’abbattimento di molti alberi e l’interesse principale di creare spazio per le coltivazioni come quelle della soia e gli allevamenti intensivi di bovini, hanno posto quest’ultimo governo come primo colpevole sul banco degli imputati. Ma è davvero giusto additare solo Bolsonaro? Il presidente più “chiacchierato” della storia del Brasile – e per battere Lula ce ne vuole -, il più controverso, fonte di ideologie per certi versi anacronistiche, estimatore del passato regime militare e, ovviamente, uomo di destra.

Da Cardoso a Bolsonaro, quindi, passando per Lula, Dilma Rousseff e Michel Temer, lo scopo dei governi è stato uno e uno soltanto: resuscitare le sorti del Paese, costi quel che costi

La risposta è no. Il Brasile ha perso l’11% della sua area forestale tra il 1985 e il 2017, un’area equivalente a 2,6 stati di San Paolo. Il 61,5% del dato totale, secondo la ricerca di Mapbiomas, sono perdite forestali in Amazzonia e uno dei due record di tassi di deforestazione è – ebbene sì – del governo Lula. In questo arco di tempo sono 800.000 i chilometri quadrati di foresta amazzonica scomparsi per fare spazio ad agricoltura e allevamento intensivi. Vasti tratti di foresta vengono disboscati per poi essere seminati nuovamente con dell’erba tipica della savana africana per nutrire i bovini, o in alternativa vengono architettati stretti filari per la coltivazione della soia, di cui il Brasile, dietro solo agli Stati Uniti, è tra i principali esportatori al mondo.

In diciasette anni, spiega il Global Forest Watch, non è cambiato nulla e il tasso di deforestazione permanente nel mondo, soprattutto legato al commercio di merci, è rimasto totalmente inalterato. Da Cardoso a Bolsonaro, quindi, passando per Lula, Dilma Rousseff e Michel Temer, lo scopo dei governi è stato uno e uno soltanto: resuscitare le sorti del Paese, costi quel che costi.
Nel 2017 una nuova corsa all’oro ha portato il governo federale brasiliano a pubblicare un decreto in grado di abolire una riserva grande quanto la Svizzera, la National Reserve of Copper and Assoono, per favorire lo sfruttamento delle risorse minerarie. Mentre pochi anni prima, la diminuzione degli investimenti, sia con Lula sia con Rousseff, a supporto di nuove attività produttive sostenibili, sfociò nel settembre 2011 con l’approvazione del progetto di riforma del Codice Forestale che permise di incrementare la deforestazione a favore delle infrastrutture per i Mondiali.

Come solvente ad attenuare le posizioni dei politici brasiliani, ci pensano però le multinazionali e i “banditi ambientali”. Molte grandi aziende, infatti, non comunicano in modo trasparente l’impatto delle loro attività sulla deforestazione globale, oltre a non adottare misure adeguate a favore della salvaguardia delle foreste. Il nuovo report pubblicato da CDP, la piattaforma globale di rendicontazione ambientale, ha notificato nomi e ragioni sociali: più di 350 aziende hanno rifiutato di rispondere sul triennio 2016-2018, tra cui marchi come Dominos, Next, Ferrero Spa e Sports Direct. L’interrogazione dell’associazione ha coinvolto oltre 1.500 le aziende, il cui operato ha un impatto significativo sulla deforestazione. Il 70% non ha fornito informazioni o dettagli sui principali elementi contestati e responsabili (direttamente o indirettamente) della deforestazione: ovvero legno, olio di palma, allevamenti di bestiame e soia.

Il che ci porta al secondo punto. La deforestazione illegale si traduce successivamente in cluster di allevamento abusivo: sono molte le aree in cui pascolano decine di migliaia di animali, i cui allevatori, prima di condurli alla morte, li trasporterebbero in pascoli legali alterandone l’origine

Queste aziende utilizzano ampiamente prodotti che figurano nel carnet dei derivati dalla deforestazione. A volte, fornendosi perfino della rendita di quella illegale. Come il caso del colosso JBS, il produttore più grande al mondo di carne, accusato dall’Ibama, l’agenzia della protezione ambientale brasiliana, di aver comprato 59 mila bovini provenienti da 507 km quadrati di pascoli interdetti per disboscamento mai autorizzato. Il che ci porta al secondo punto. La deforestazione illegale si traduce successivamente in cluster di allevamento abusivo: sono molte le aree in cui pascolano decine di migliaia di animali, i cui allevatori, prima di condurli alla morte, li trasporterebbero in pascoli legali alterandone l’origine.

Se a incidere sulla percezione del disastro che sta consumando il cosiddetto polmone verde del pianeta, è soprattutto la cospicua perdita di ecosistema, nondimeno a subirne le conseguenze sono gli abitanti che vivono al suo interno. Le invasioni territoriali a discapito degli indigeni sono cresciute del 150 per cento, mentre le specie in via di estinzione adesso contano, allo stato naturale, anche il famoso Ara di Spix blu, protagonista del film di animazione Rio.

Infine, basta uscire leggermente dai confini brasiliani per rendersi conto dell’estensione del problema. L’Amazzonia affonda le sue radici per il 60% in Brasile, mentre le restanti diramazioni interessano gran parte del Sud America, in particolare Colombia, Perù ed Ecuador. Lo Stato di Iván Duque Márquez, dopo anni di deforestazione selvaggia, vede la luce con un calo del 10% dei tagli. Non si può dire lo stesso del Perù, dove la portata della deforestazione subita dalle foreste pluviali, a causa dell’attività mineraria condotta in quelle zone per estrarre oro, ha spazzato via più di 170.000 acri, equivalenti a circa 200 Central Park di New York. In Ecuador, il gigante petrolifero Chevron è stato condannato al pagamento di un risarcimento di 9,5 miliardi di dollari per compensare gli irreparabili danni causati alla foresta amazzonica nel corso di decenni di attività.

Insomma, l’effetto Bolsonaro è indiscutibile, lontano da ogni giustificazione. Basti pensare che lo scorso anno, secondo l’Osservatorio sul Clima, il Brasile ha immesso nell’atmosfera 1,93 miliardi di tonnellate di CO2, facendo registrare un incremento delle emissioni del 3,5 per cento rispetto al 2014. Tuttavia, in questo concorso di colpe, l’innocenza ha un prezzo e ognuno, senza remore, vuole uno spicchio della grande e ricca torta verde.