L’intervistaL’antropologo Remotti: “I rapporti coi migranti? La parola chiave non è integrazione, ma convivenza”

Famiglia, accoglienza, religione: sono solo alcuni tra i temi che l’antropologo Francesco Remotti affronta nel suo nuovo libro “Somiglianze. Una via per la convivenza”. Una lunga intervista a tutto tondo per capire la società di oggi, e dove dovrebbe andare

In un panorama socio-politico confuso, nel quale si tende a smussare la complessità della realtà a seconda delle proprie convinzioni o ideologie, l’antropologia può rappresentare un faro per orientarsi nell’oscura ottusità dei pregiudizi e della menzogna. Intervistato in esclusiva per Linkiesta.it l’antropologo Francesco Remotti, che di recente ha pubblicato per i tipi di Laterza il libro Somiglianze. Una via per la convivenza (2019).

È corretto sostenere, come molti fanno, che in «natura» esista un solo e unico modello di famiglia?
Tanto per cominciare, cosa si intende con “in natura”? C’è uno stato naturale dell’umanità o pensiamo anche a forme di famiglia presso le specie animali? In questo secondo caso, è facile constatare una molteplicità di forme famigliari. Per quanto riguarda la specie umana, in particolare Homo sapiens, è del tutto evidente che non esiste uno “stato naturale” dell’umanità: Homo sapiens si presenta sempre come un animale fortemente “culturale” e proprio per questo egli vive in diversi tipi di società e nel contempo elabora diverse forme di famiglia. Se poi con l’espressione “in natura” si intendesse l’uomo che vive soltanto secondo i principi della sua natura, ossia della natura umana, la risposta degli antropologi è duplice: 1) non esiste una natura umana, ossia un insieme di principi, leggi, caratteristiche che determinerebbero il comportamento umano a prescindere dalla cultura; 2) i condizionamenti di ordine naturale (genetici e più in generale biologici) non sono tali da determinare un modello di famiglia tipicamente umano. Ciò che osserviamo (con l’osservazione etnografica e la riflessione teorica) è un ventaglio ampio di modelli di famiglia.

Molto spesso negli ambienti cattolici e conservatori viene utilizzato il termine «contronatura», ma non è contraddittorio definire qualcosa che esiste in natura come non-naturale?
Di solito, “contro natura” viene utilizzato – come già faceva Platone e poi san Paolo – per indicare le unioni omosessuali, intendendo che sono unioni che vanno contro al principio secondo cui il sesso è – per natura – orientato alla procreazione. Considerando Homo sapiens, è facile rilevare che il comportamento sessuale non è orientato esclusivamente verso la procreazione: ha una sua autonomia. Del resto, come gli etologi hanno ampiamente dimostrato, le unioni omosessuali sono presenti in moltissime specie animali e questo non solo in condizioni costrittive (come potrebbero essere gli zoo), ma anche, appunto, “in natura”. In altre parole, si può ben dire che il comportamento omosessuale è un comportamento naturale, tanto quanto il comportamento eterosessuale. Per cui la definizione del comportamento omosessuale come comportamento “contro natura” è certamente contraddittoria, nel senso almeno che è smentita dai fatti, quali sono stati scientificamente comprovati.

La formulazione dell’articolo 29 nasce infatti da una convergenza tra la cultura cattolica, per la quale la famiglia è da ricondurre alla “natura umana”, e la cultura di sinistra, secondo la quale la famiglia nucleare e monogamica è sì un prodotto storico, ma nel contempo rispondente alle leggi naturali

L’articolo 29 della nostra Costituzione recita: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». Quale potrebbe essere una corretta interpretazione di questo articolo?
Sono dell’opinione che non si debba forzare il senso di questo articolo, come quando per esempio alcuni fanno notare che l’articolo non parla dei tipi di coniugi che si uniscono in matrimonio e che dunque non sono automaticamente esclusi i coniugi omosessuali. Certo, si potrebbe sfruttare questa indeterminazione e dare un’interpretazione a favore delle unioni omosessuali, facendole quindi rientrare nella categoria di “famiglia”; ma per fare ciò occorrerebbe non un sotterfugio, ma un’esplicita volontà generale. Se infatti dovessimo risalire a ciò che i costituenti avevano in mente, non si può certo dire che avevano in mente la possibilità di comprendere anche le unioni omosessuali. La formulazione dell’articolo 29 nasce infatti da una convergenza tra la cultura cattolica, per la quale la famiglia (nucleare e monogamica) è da ricondurre alla “natura umana”, quale è stata creata da Dio, e la cultura di sinistra, in particolare marxista, la quale ereditava e faceva propria la concezione di Lewis H. Morgan, secondo la quale la famiglia nucleare e monogamica è sì un prodotto storico (coincidente con lo stadio della civiltà), ma nel contempo rispondente alle leggi naturali, dettata quindi dalla natura. Secondo questa concezione, la civiltà si libera dalle forme di famiglia che le società umane hanno inventato nella loro storia e approda alla conoscenza scientifica della natura e delle sue leggi, che per quanto riguarda la famiglia sono le leggi della discendenza biologica della prole da entrambi i genitori. È pure fuori di dubbio che il ricorso da parte dei costituenti all’idea della famiglia come società naturale aveva il significato di difendere la famiglia dalle ingerenze dello Stato. L’articolo 29 va dunque inteso – forse più di altri – come un articolo avente un significato “storico”, da ricondurre cioè alla situazione storica particolare dell’Italia appena uscita dal Fascismo. Esaminato sotto il profilo delle acquisizioni attuali in campo antropologico, l’articolo svela diversi aspetti problematici, come per esempio l’affermazione secondo cui la famiglia, pur essendo una «società naturale», è «fondata sul matrimonio», cioè su un atto tipicamente “rituale” e “culturale”: come può essere che un rito sia il fondamento di una società naturale?

A suo avviso, uno Stato come potrebbe far conciliare in materia di diritti consuetudine e scienza?
Se interpreto bene la domanda, la consuetudine – o tradizione, costumi ecc. – designa l’aspetto conservativo della vita sociale, ossia la tendenza a mantenere certi tipi di diritti a scapito di altri. La scienza invece – sia nella versione delle scienze naturali, sia nella versione delle scienze sociali – avrebbe un carattere innovativo e potrebbe quindi aiutare a fare emergere l’importanza e la validità di certi altri tipi di diritti, fino a quel momento ignorati, oscurati, se non addirittura osteggiati. Ho detto “potrebbe aiutare a fare emergere”. Il che significa che certi tipi di diritti potrebbero emergere dalla società e affacciarsi alla politica anche senza l’aiuto esplicito o diretto della scienza, o persino contro la scienza del momento, contro l’opinione di certe comunità scientifiche ecc. È indubbio comunque che approfondimenti scientifici in relazione alle motivazioni di base e alle implicazioni di nuovi diritti sono, o dovrebbero essere, un momento particolarmente importante per sgombrare il campo da preconcetti e da pregiudizi. La domanda riguarda però la funzione dello Stato nel tentativo di conciliare consuetudine e scienza. Forse lo Stato dovrebbe attrezzarsi maggiormente per consentire l’emergere di nuovi soggetti e di nuovi diritti e quindi il confronto tra ciò che è consuetudine e ciò che è innovazione, avendo di mira il benessere – se non proprio la felicità – dei concittadini: in altre parole, si tratta di predisporre tempi, luoghi e mezzi, per favorire il confronto, così da sciogliere le incrostazioni dei costumi acquisiti e i timori infondati, e fare esercitare le capacità di prevedere e provvedere. Sarebbe la democrazia.

le culture sono sempre diverse tra loro: mai però assolutamente diverse, bensì diverse e simili nello stesso tempo, ovvero sono simili in quanto condividono aspetti, temi, oggetti ecc., e sono diverse nella misura in cui non condividono scelte, valori, principi

Un altro tema caldo dell’attualità è l’integrazione. Non sono pochi coloro che parlano di un’impossibilità di convivenza pacifica fra diverse «culture». Da un punto di vista antropologico cosa significa «cultura» e pensa che possa esistere un modello di accoglienza funzionante?
Ci sono molti nodi da sciogliere in questa domanda: cultura, culture, accoglienza, convivenza, integrazione, conflitto. Partiamo da cultura sotto il profilo antropologico: a) cultura è qualunque insieme di comportamenti appresi e relativi prodotti, materiali o mentali che siano; b) ogni cultura nasce da una selezione di alcune possibilità, invece di altre; c) ogni cultura è quindi sempre particolare, mai universale. Ciò significa che le culture sono sempre diverse tra loro: mai però assolutamente diverse, bensì diverse e simili nello stesso tempo, ovvero sono simili in quanto condividono aspetti, temi, oggetti ecc., e sono diverse nella misura in cui non condividono scelte, valori, principi. Per quanto riguarda somiglianze e diversità è dunque sempre una questione di grado. Un grado sufficiente di somiglianza favorisce senza dubbio l’accoglienza. Ma somiglianze e diversità non sono quantità fisse: i soggetti umani possono aumentarle e diminuirle, oppure considerare più importanti certe somiglianze rispetto alle differenze o viceversa, oppure ancora considerare le differenze non già come fattori di allontanamento e di respingimento, ma come elementi che possono essere valorizzati. Guardiamo la differenza tra integrazione e convivenza. L’integrazione è sempre una relazione asimmetrica e gerarchica, in quanto si basa sul principio che, per esempio, A è la società che accoglie e integra B, nella misura in cui B accetta i principi di A, rinuncia alle proprie differenze più consistenti, decide di assimilarsi ad A, di divenirne parte o addirittura di fondersi e scomparire in A. Al contrario, la convivenza tra A e B avviene su un piano di maggiore parità: qui non si annullano le differenze di A o di B, ma le differenze vengono persino esaltate e armonizzate con le differenze altrui. Qui le differenze non sono ostacoli (lo sarebbero in vista dell’integrazione); sono invece risorse sia per A sia per B, anzi per l’insieme A-B. Ma, tutte le differenze sono risorse? Qui nasce il problema delle compatibilità: non ogni differenza è compatibile con qualsiasi altra differenza. È dunque probabile che si debbano aprire delle discussioni, scendere a compromessi, operare delle scelte. Il che significa che il conflitto è sempre in agguato: un conflitto che può essere ricomposto, circoscritto, persino ammesso e ritualizzato, oppure un conflitto che esplode e che induce i protagonisti a scelte radicali, come quella del reciproco allontanamento, di un prolungamento della guerra, oppure la scelta estrema della soppressione e dello sterminio. Quindi – come si può vedere – ci muoviamo su un terreno di possibilità (estraneità, scambi, integrazione, convivenza, conflitto, sterminio): dipende dai noi decidere quale strada intraprendere, quale strategia adottare, e ciò naturalmente in rapporto anche alle scelte degli altri, i nostri potenziali nemici o alleati. Dunque non è soltanto questione di accoglienza: le cose cambiano se si concepisce l’accoglienza in vista di un’integrazione (annullamento delle differenze) oppure in vista della convivenza (valorizzazione delle differenze). Sono tutti problemi assai complicati: non esistono formule sicure, se non per le soluzioni più radicali. Specialmente per l’accoglienza-convivenza occorre che i noi si attrezzino di intelligenza e di cura: occorre che sviluppino una vera e propria cultura o arte del convivere.

L’identità consiste nell’immaginare che un io o un noi sia fornito di un’essenza, di una sostanza, autonoma, a sé stante, che per principio non condivide – non può condividere – con altri

In molti dei suoi testi, lei ha parlato dell’identità come di una costruzione artificiale, soffermandosi particolarmente sul pericolo di una strumentalizzazione politica di tale concetto. Ci può dire di più a tal proposito?
Non saprei dire di più rispetto a quanto ho già scritto a proposito dell’identità, ossia che è senza dubbio una bella parola, elegante, seducente, affascinante, e che però è anche una parola avvelenata. Di cui occorre diffidare. Perché diffidare? Perché afferma delle falsità: è una bugia, una menzogna, sostiene ciò che non esiste. Mai nessuno riesce a dire, in maniera convincente e comprovata, questa è l’identità di un io o di un noi. L’identità consiste nell’immaginare che un io o un noi sia fornito di un’essenza, di una sostanza, autonoma, a sé stante, che per principio non condivide – non può condividere – con altri. L’identità è dunque il taglio (la negazione) di tutte le relazioni con gli altri: gli altri sono scaraventati nell’alterità, nell’estraneità, e così diventano i nostri potenziali nemici, la minaccia sempre incombente dell’alterità e dell’alterazione. La visione del mondo che ne risulta è tutta fatta di sfere compatte (i noi o gli io) e tra le sfere vi sono spazi vuoti, aperti soltanto ai conflitti, ai tentativi di soppressione: una visione squallida, impoverente, estremamente pericolosa. La battaglia più difficile è quella di convincere che si può ragionare anche in termini diversi, nettamente alternativi alla logica dell’identità. C’è un’altra logica, che non è da inventare: è da scoprire o meglio riscoprire, perché per fortuna la usiamo molto spesso quasi senza accorgercene: è la logica delle somiglianze, o meglio delle somiglianze e delle differenze, che ho cercato di illustrare nel mio ultimo libro.

C’è un politico a cui consiglierebbe di fare studi di antropologia?
Un politico? Non “un” politico, ma tutti coloro, politici o meno, a cui stiano a cuore i problemi della convivenza. E beninteso, direi che non soltanto i politici dovrebbero avvicinarsi all’antropologia, ma anche gli antropologi dovrebbero offrire al dibattito pubblico temi, argomenti, concetti e teorie utili per meglio mettere a fuoco i problemi che incombono sull’umanità: alludo a tutto ciò che oggi raccogliamo nella nozione di Antropocene.

A proposito di convivenza e di culture, Marc Augé in un recente pamphlet (Le tre parole che cambiarono il mondo, Raffaello Cortina Editore) ipotizza che se si sgretolassero tutti i culti ancora esistenti, si traccerebbe la via verso quella che Kant chiamava la «pace perpetua». È d’accordo?
Sì, nel senso e nella misura in cui il pamphlet si riferisce ai tre monoteismi, caratterizzati da ciò che Jan Assman ha definito la “distinzione mosaica”, vale a dire non già la mera credenza in un unico dio, ma la credenza che il proprio dio sia l’unico vero dio e che gli dèi degli altri non siano altro che idoli. La distinzione mosaica è la matrice della violenza sul piano delle religioni. Ma Augé è anche autore del Genio del paganesimo, grande conoscitore delle vecchie religioni africane, che non praticavano affatto un monoteismo escludente, ma forme di convivenza tra culti, riti e credenze. Quindi, non è affatto il caso di sgretolare tutti i culti: il rischio sarebbe quello di un deserto prodotto da un ateismo altrettanto fanatico delle più fanatiche tra le religioni. Purtroppo, però, oltre alla religione, gli esseri umani si inventano tanti altri motivi per non giungere alla «pace perpetua».

È giusto, ed è sacrosanto, che una società predisponga un futuro per i giovani o che i giovani abbiano spazio per crearsi il loro futuro. Se no, che razza di società è?

In un mondo così complesso e variegato, qual è il ruolo dell’antropologia oggi e quali sono le sue sfide future?
In un mondo così complicato e in continua trasformazione, gli antropologi rischiano davvero di fare la figura degli outsiders, se non degli ultimi della classe. Le cito questa frase di Clifford Geertz: sulla modernità – egli diceva – «quasi tutti ne sanno più di noi, confusi come siamo ancora da combattimenti di galli e da pangolini» (i combattimenti di galli che Geertz aveva studiato nell’isola di Bali e il culto del pangolino che Mary Douglas aveva studiato tra i Lele del Kasai, in Congo). La cultura in cui viviamo è enorme, smisurata: nessun sapere scientifico è in grado di dominarla. Contrariamente a tanti miei colleghi, io rimango della mia vecchia convinzione, cioè che gli antropologi farebbero male ad abbandonare combattimenti di galli e culti dei pangolini. Proprio perché vogliamo ritagliarci un ruolo nel mondo contemporaneo, a me sembra che la nostra relativa estraneità, persino la nostra «inattualità» (ho scritto un piccolo libro intitolato Per un’antropologia inattuale, Milano, Eleuthera, 2014), ci possono offrire uno sguardo un po’ speciale, e però prezioso, su questo mondo: è lo sguardo che si forma continuando a studiare culture diverse, culture che in molti casi sono state travolte da ciò che noi chiamiamo il progresso. Siamo – ci dicono – nell’Antropocene, una nuova era geologica indotta dall’«incivilimento smisurato» di cui parlava Leopardi negli anni venti dell’Ottocento. Ebbene, quanti temi, quanti spunti critici, quante forme di saggezza potrebbero provenire dalle società “inattuali”, la cui memoria gli antropologi hanno il compito di preservare e di rivitalizzare, anche quando, anzi soprattutto quando si decidono di studiare, insieme agli oracoli degli Azande, le nuove forme di previsione del futuro dei big data.

Nel corso della sua carriera, ha avuto modo di studiare e di osservare da vicino popolazioni molto lontane dal nostro modello di vita occidentale. Qual è stata la cosa più sorprendente a cui ha assistito?
Niente di particolarmente sorprendente o shoccante: soltanto un piccolo episodio, che però tendeva a ripetersi sulle colline del Bunande, il territorio dei Banande del Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo), dove ho condotto le mie ricerche etnografiche a partire dal 1976. Mi trovavo, allora quarantenne, con alcun giovani amici e collaboratori, assai più giovani di me, su un sentiero incassato su una di quelle colline. Procedevamo in fila indiana. Di fronte a noi avanzava a piedi nudi e faticosamente un anziano, che si sosteneva al suo lungo bastone. Per me fu naturale spostarmi sul ciglio del sentiero, così da lasciare il passaggio al vecchio. Nessuno dei miei giovani amici mi imitò: tutti andavano avanti con sguardo dritto e altero. Fu il vecchio con il bastone a salire sul ciglio del sentiero e a guardare con sguardo tenero i giovani che avanzavano. Non fu un episodio sporadico: l’esperienza si ripeté molte altre volte. Mi chiesi allora perché quei giovani – non certo sbruffoni e tracotanti nella vita di tutti i giorni – mancassero così vistosamente di rispetto nei confronti dell’anziano. Sinceramente, ci rimasi male. Qualche tempo dopo ne parlai con loro e soprattutto con il mio migliore collaboratore e amico, mio coetaneo e, dopo avere frequentato diversi anziani, capii una cosa importante: non era mancanza di rispetto da parte dei giovani; era invece riconoscimento, da parte dell’anziano, che la via, il sentiero, ciò che prosegue e va oltre, verso il futuro, era dei giovani. Quante volte ho colto negli occhi e nei discorsi degli anziani un deciso venire meno di ciò che è forza, energia, vitalità prorompente, un subentrare invece di un senso di dolcezza, di tenerezza, unitamente alla consapevolezza di un dover farsi da parte sul sentiero e nella vita: a favore dei giovani che avanzano. Il sentiero è loro: è giusto che l’anziano li lasci andare verso la loro meta; lui ha già compiuto il suo cammino. È giusto, ed è sacrosanto, che una società predisponga un futuro per i giovani o che i giovani abbiano spazio per crearsi il loro futuro. Se no, che razza di società è? (Ogni riferimento alla nostra società è del tutto intenzionale).

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