Lezioni di storiaSvegliatevi cortigiani, e dite qualcosa: altrimenti il Viminale diventa Casa Salvini

Salvini tratta le istituzioni come fossero casa sua, e nel frattempo l’opposizione, dalla sinistra ai sindacati e i giornali, ormai è morta e sepolta. Nessuno apre più bocca

MIGUEL MEDINA / AFP

Se uno considera le istituzioni come casa sua, è normale che i suoi camerieri decidano la lista degli invitati e i posti a tavola. Se uno considera le istituzioni come personale ufficio elettorale, è normale che in questo ufficio vengano convocati industriali, sindacalisti, rappresentanti della società civile, consulenti della rete, secondo opportunità e convenienza politica. Se uno considera le istituzioni come casa sua, è normale che ne stabilisca regole d’ingresso e regolamento condominiale se ha i millesimi di maggioranza.

Se questa è la concezione delle istituzioni, è normale che il ministro degli interni convochi al Viminale le parti sociali per illustrare la sua proposta di politica. E che ne parli accanto a un parlamentare indagato per rapporti mafiosi. È normale che, sul fronte dell’immigrazione, pretenda di dare ordini alla Marina Militare e alla Guardia di Finanza e di cambiare norme o non applicarle, infischiandosene del diritto internazionale. È anche normale che contesti le sentenze che non gli piacciono e che desideri imporre il silenzio ai magistrati sgraditi.

È normale che, all’insaputa del presidente del Consiglio e dei soci di governo, faccia decidere gli inviti agli incontri ufficiali con la delegazione russa al seguito di Putin. Di Savoini imbucato si è parlato molto in questi giorni e non sono mancate conferme. Meno si è parlato della lista degli invitati e degli esclusi, sia da parte russa che da parte italiana. Sarebbe interessante conoscere la composizione, il rango, la distribuzione dei posti a tavola, essendo lo specchio di ambizioni e relazioni che coinvolgono la diplomazia e la politica internazionale del Paese.

È però meno normale che questo cambio di prospettiva avvenga in una sostanziale indifferenza/acquiescienza dell’opinione pubblica, degli alleati di governo, delle parti sociali, dei corpi dello Stato

È però meno normale che questo cambio di prospettiva, queste valutazioni personali di opportunità e stile, questa occupazione disinvolta delle istituzioni senza rendere conto a nessuno (nemmeno al Parlamento, secondo ultime dichiarazioni) avvenga in una sostanziale indifferenza/acquiescienza dell’opinione pubblica, degli alleati di governo, delle parti sociali, dei corpi dello Stato. Certo non mancano le voci critiche, i titoli forti dei giornali, qualche protesta, qualche dichiarazione pubblica e molto sotterraneo lavoro di rammendo e vigilanza da parte del Quirinale, ma il quadro d’assieme non è quello di una parte del Paese che vuole difendere legalità, spazi di democrazia, civismo, cultura della solidarietà sempre più spesso sfregiata da atteggiamenti razzisti e xenofobi tollerati quando non incoraggiati, anche per la libertà d’azione che hanno circoli di squadristi. Ed è ancora meno normale che il Paese non prenda coscienza del pericolo per la democrazia, per l’Europa, per la coscienza di tutti.

Prendete ad esempio la comunicazione fra alleati di governo. Sembra il gioco di Tom e Jerry, in cui il gatto insegue il topo, si danno randellate, si fanno dispetti, ma tutto torna come prima fino al prossimo episodio del cartoon. Pochi si prendono la briga di mettere insieme tutto e costruire una reazione forte e decisiva. I 5Stelle si guardano bene dal rompere e tantomeno dal creare condizioni d’isolamento del “capitano”. Loro, i 5 stelle, i paladini della lotta al finanziamento pubblico, i Torquemada della democrazia dal basso, i Savonarola della trasparenza, oggi sono ridotti a maggiordomi dispettosi che sputano nel piatto quando lo riportano in cucina. Così, per salvare la decenza.

Prendete la galassia della sinistra radicale, dell’area di opposizione dura e pura, dei delusi dal PD – politici, intellettuali, giornalisti, magistrati, sindacalisti – quella sempre pronta a scendere in piazza, a gridare al lupo, quella della narrazione “ci vuole ben altro” che riforme zoppe e faticosi compromessi sociali, quella che considerava un attacco alla Costituzione il referendum renziano, quella dei D’Alema e dei Grasso che denunciava il distacco del PD dalle masse popolari: dove è finita? Su quale manifesto ha firmato il proprio disgusto? In quale salotto televisivo o intellettuale si agita?

Non si dovrebbe aspettare l’Angelus domenicale di Papa Francesco per sentire una voce chiara sui migranti, sull’etica del lavoro, sulle guerre, sulla responsabilità politica e sociale

Prendete il Pd, lacerato dalle correnti, in bilico fra recuperare Renzi o spingerlo ad andarsene per la sua strada, deciso a chiedere commissioni d’inchiesta e ad agitarsi in parlamento, ma ancora prudente e timido quando si tratta di mobilitare una piazza, coinvolgere la società civile, trovare argomenti che scuotano dal torpore e dall’indifferenza l’opinione pubblica, innescare battaglie ideali, su temi come lo jus soli, la sostenibilità ecologica, la pace, l’immigrazione, il diritto internazionale. Hanno mobilitato più gente le madamine di Torino per la Tav o un gay-pride o una Greta ecologica! E non si dovrebbe aspettare l’Angelus domenicale di Papa Francesco per sentire una voce chiara sui migranti, sull’etica del lavoro, sulle guerre, sulla responsabilità politica e sociale.

Prendete i sindacati. Prendete cuor di Leone Landini, l’uomo del maglione rosso, l’onnipresente voce arrabbiata di ogni talk show sulla politica dei governi precedenti, che non si accorge (sic) che le parti sociali sono convocate al Viminale anziché a palazzo Chigi, che non sbatte la porta quando si trova di fronte un indagato per parlare di flat tax ed economia, che fa battute chiedendosi se i governi sono due o tre. Non era lui la punta di diamante, con la collega Camusso, della battaglia per la democrazia? Non era lui il paladino delle lotte di fabbrica, dell’arma dello sciopero generale così spesso agitata, dei referendum contro il “padrone”?

Prendete gli industriali, gli artigiani, i grandi manager, le categorie produttive, di solito pronte ad alzare la voce critica su misure sbagliate, inefficienze, mancanza di visione economica e strategica. Certo non sono mancate voci critiche alle assemblee istituzionali. Ma c’è qualcuno che abbia denunciato forte e chiaro il pericolo di isolamento in Europa? C’è qualcuno che faccia due conti e si ricordi che i nostri maggiori partner economici sono la Germania e la Francia (e non la Russia di Putin come piacerebbe a qualche amico brianzolo del capitano)? C’è qualcuno degli ultimi capitani d’industria che abbia voglia di schierarsi? O che almeno s’incazzi per il rango marginale in cui l’Italia è stata confinata in Europa?

Piero Gobetti scriveva che senza conservatori e senza rivoluzionari l’Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico

Prendete la satira e il giornalismo da battaglia e ricordiamoci della ferocia, al limite dell’aggressione, con cui venivano combattute le disinvolture del Cavaliere, in verità più private che pubbliche, in campo sessuale, le leggi ad personam e le battute da bar ai vertici internazionali. A confronto con l’attualità, Berlusconi appare uno statista, un convinto europeista. Ma tace anche lui, come tacciono le centinaia di amministratori leghisti, per bene e onesti, che non osano la minima critica interna in un movimento in cui tutto è deciso e organizzato in funzione del capo.

Se questo è il quadro, possiamo azzardare qualche previsione per gli anni a venire. Piero Gobetti scriveva che senza conservatori e senza rivoluzionari l’Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico, che il mussolinismo ha confermato l’abito di un popolo cortigiano e il vezzo di attendere dal domatore la propria salvezza. Un popolo però educato. Bocche cucite e nemmeno una pernacchia.

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