Capro espiatorioIl caso Sea Watch, leggi alla mano: ecco perché Carola Rackete ha ragione e Salvini torto marcio

rilascio della capitana tedesca conferma che il decreto sicurezza bis, su cui il ministro dell’Interno ha fondato la chiusura delle acque alla Sea Watch 3, non è applicabile alle azioni di salvataggio

FEDERICO GAMBARINI / DPA / AFP

In ogni ambito, oggi più che mai, serve conoscere per capire. Mentre la politica tende a imporre le proprie “narrazioni”, c’è bisogno di chi offra “spiegazioni”. Dunque, può risultare utile fornire qualche elemento ulteriore, rispetto a quanto già esposto in un articolo precedente, per valutare la condotta del comandante di una nave che si trovi nella situazione di Carola Rackete sulla Sea Watch 3. Anche perché può ritenersi, con ragionevole certezza, che vi saranno altri casi similari. Nell’articolo richiamato si è detto che l’obbligo di soccorso in mare – previsto da convenzioni internazionali, di rango superiore rispetto alla legge ordinaria (art. 117 Cost.) – prevale su qualunque disposizione finalizzata a scopi diversi. Ora occorre chiarire come si è arrivati all’esito che la vicenda ha avuto, assemblando con ordine i pezzi del puzzle normativo.

Ogni Stato costiero – ai sensi della Convenzione Unclos – deve predisporre un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso, collaborando a questo fine con gli Stati adiacenti. Tale obbligo di collaborazione è specificato in altri Trattati internazionali: la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas) e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso marittimi (Sar). Al riguardo, le zone di ricerca e salvataggio (Sar) sono ripartite d’intesa tra gli Stati interessati; l’autorità di uno Stato costiero competente sulla zona di intervento, che abbia avuto notizia di persone in pericolo di vita nella zona di mare Sar di propria pertinenza, deve intervenire immediatamente ed è tenuta a fornire al più presto la disponibilità di un posto di sicurezza per lo sbarco. Il luogo sicuro, place of safety, non è sempre il porto più vicino. Infatti, le operazioni di salvataggio non si esauriscono con le prime cure mediche o con il soddisfacimento di altri bisogni immediati: un posto sicuro deve pure garantire la sicurezza effettiva delle persone, in termini di protezione dei loro diritti fondamentali, nel rispetto del principio di non respingimento. Allo scopo di completare gli obblighi in tema di soccorso in mare, gli Stati membri dell’Organizzazione Marittima Internazionale (International Maritime Organization, IMO) hanno adottato emendamenti alle citate Convenzioni, i quali – tra l’altro – impongono agli Stati stessi di cooperare affinché i comandanti delle navi siano quanto prima sollevati dagli obblighi di assistenza alle persone tratte in salvo (con una minima ulteriore deviazione rispetto alla rotta prevista) e queste ultime vengano portate al sicuro.

Eppure, nonostante le regole sopra esposte, c’è comunque una zona grigia. Fermo restando, infatti, l’obbligo di soccorrere i naufraghi e l’indicazione di un posto sicuro da parte dell’autorità Sar competente nella porzione di mare ove viene effettuato il loro salvataggio, a chi spetta accoglierli sulla terra ferma nel caso in cui l’autorità Sar sia, ad esempio, quella libica e il porto da essa indicato sia quello di Tripoli, che non è place of safety (v. raccomandazione della Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa, lettera dell’Onu , sentenza del GIP di Trapani), poiché lì le persone potrebbero subire una violazione dei loro diritti fondamentali? Le Convenzioni non forniscono criteri puntuali per situazioni come questa, che è poi il caso della Sea Watch 3. Per offrire comunque una soluzione, gli emendamenti sopra richiamati prevedono un obbligo generalizzato per i Paesi firmatari di cooperare con il comandante della nave per sollevarlo dall’assistenza delle persone a bordo, come esposto. Ciò nonostante, potrebbe verificarsi che i Paesi interessati non siano disponibili allo sbarco – per quel “rimpallo di responsabilità” che spesso avviene quando manca la prescrizione normativa di un responsabile unitario – e quindi che la nave resti priva di indicazioni per l’approdo. Paradossalmente, essa potrebbe stazionare all’infinito in alto mare. Ma, com’è ovvio, con persone in stato di fragilità a bordo, ciò è un assurdo.

La decisione della gip di Agrigento conferma quanto sopra esposto: il decreto sicurezza bis, su cui il ministro dell’Interno ha fondato la chiusura delle acque alla Sea Watch 3, non è applicabile alle azioni di salvataggio

Pertanto, non potendosi osservare le indicazioni dell’autorità Sar competente per i motivi spiegati e in assenza di criteri cogenti sull’individuazione di un preciso Stato obbligato a fornire un porto sicuro in casi come questo, nonché in mancanza di quella cooperazione verso il comandante della nave cui i Paesi sarebbero comunque tenuti, il comandante stesso – lasciato solo – resta l’unico attore a dover trovare il modo affinché i naufraghi siano portati al riparo. Per svolgere questo compito, egli è titolare di una discrezionalità ampia, che deve esercitare considerando la situazione in cui si trova e, quindi, ogni elemento che in concreto può assumere rilevanza, come risulta – tra l’altro – dalle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004). Specificamente, al punto 6.15 si prevede che «Lo sbarco in un luogo sicuro dovrebbe tenere conto delle circostanze particolari del caso. Queste circostanze possono includere fattori come la situazione a bordo della nave di assistenza, le condizioni meteorologiche, le esigenze mediche e la disponibilità di mezzi di trasporto o altre unità di soccorso. Ogni caso è un caso a sé e la scelta di un posto sicuro potrebbe rendere necessario considerare una serie di fattori importanti».

Detto tutto questo, come può aver ragionato Rackete, dopo le giornate in cui era divenuta palese l’indifferenza di chi le avrebbe dovuto fornire supporto? Escluso l’approdo a Tripoli – unico porto indicatole dall’autorità Sar libica competente, dove lo sbarco sarebbe stato non “sicuro”, e quindi non lecito – la comandante non avrebbe potuto considerare sicuro neanche il porto di Tunisi: «La Tunisia pur essendo più sicura della Libia, non garantisce alcuno status di protezione legale», non avendo adottato una legge sull’asilo. Poteva dirigersi verso Malta. Ma Malta, oltre a non aver sottoscritto i citati emendamenti alle Convenzioni, ha una percentuale di immigrati molto più alta sia dell’Italia che di altri rispetto alla popolazione totale, e forse anche per questo ha declinato in passato la richiesta di accogliere migranti: non sarebbe stata un luogo adeguato. Non restava che Lampedusa, porto raggiungibile tenendo i naufraghi sulla nave il minor tempo possibile (come previsto, tra l’altro, ai punti 6.8., 6.9 e 6.20 delle citate Linee Guida). Dunque, in base al filo logico indicato – cioè data l’esclusione di altri Paesi vicini, per le ragioni dette, e la necessità di portare in breve le persone sulla terra ferma, come previsto da regole internazionali – Rackete, in assenza della collaborazione che le era dovuta e nell’esercizio della discrezionalità che le era demandata, ha reputato di agire com’è noto. E, pertanto, nel bilanciamento tra il rispetto del divieto del ministro dell’Interno – il quale a propria volta non rispettava il più volte richiamato obbligo di cooperazione teso a sollevarla da responsabilità ulteriori rispetto all’immediato soccorso – e la necessità di portare i migranti in un porto sicuro, la comandante ha ritenuto che quest’ultimo fosse l’interesse prevalente, nel rispetto del valore primario della vita dei naufraghi.

La decisione della gip di Agrigento conferma quanto sopra esposto: il decreto sicurezza bis, su cui il ministro dell’Interno ha fondato la chiusura delle acque alla Sea Watch 3, non è applicabile alle azioni di salvataggio; la scelta di Rackete di attraccare a Lampedusa non è stata “strumentale, ma obbligatoria”, dato che i porti libici e tunisini non possono considerarsi sicuri; il reato di resistenza a pubblico ufficiale è stato giustificato da una “scriminante” legata all’avere agito in “adempimento di un dovere”, salvare vite umane in mare. Dunque, chi finora ha discettato sul fatto che Rackete non abbia correttamente esercitato le proprie responsabilità farebbe meglio ad appuntare la propria attenzione su chi in Italia le proprie responsabilità verso la comandante non se l’è neanche assunte, creando i presupposti per i fatti che poi si sono verificati; e su quella zona grigia del diritto in merito alla quale è ora di fare chiarezza.

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