Crisi climaticaL’ultimo rapporto sul clima? Dice sempre le stesse cose. Siamo noi che continuiamo a non fare nulla

Il rapporto del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici conferma gli scenari che erano già stati delineati 30 anni fa: emissioni e temperatura in aumento, fenomeni meteorologici estremi, problemi di approvvigionamento. Al di là di accordi e protocolli, però, servono azioni concrete

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Il rapporto del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) conferma in larga misura, sulla base dei dati e delle osservazioni sugli effetti dell’aumento della temperatura media del pianeta, gli scenari che erano stati delineati già 30 anni fa a conclusione della prima sessione di IPCC a Sundsvall in Svezia.

A Sundsvall, come per i successivi 20 anni, ho guidato la delegazione italiana alle riunioni di IPCC. E nel 1995 ho organizzato a Roma, dall’11 al 15 dicembre, la sessione di IPCC che ha approvato il Terzo Rapporto sui cambiamenti climatici. Sono dunque testimone diretto di gran parte del percorso del Panel scientifico istituito nel 1988 dalle Nazioni Unite sia per monitorare e cercare di comprendere le cause dei cambiamenti climatici, sia per indicare le soluzioni.

È stato un percorso difficile, contrastato soprattutto all’inizio da una parte del mondo scientifico, che criticava la relazione tra emissioni di CO2 e aumento della temperatura, dalla Cina e dai paesi in via di sviluppo che hanno percepito per lungo tempo l’allarme sui cambiamenti climatici come vincolo per la loro crescita economica, dalle grandi imprese petrolifere rappresentate dai paesi del Golfo – Arabia Saudita in testa – e spesso dagli USA.

E, per paradosso, il lavoro di IPCC non è stato facilitato dai suoi sostenitori che, evocando la catastrofe climatica e sollecitando drastici cambiamenti nelle politiche energetiche globali, hanno offerto argomenti agli scettici e alimentato la rottura nella comunità internazionale nel momento in cui sarebbe stato necessario individuare impegni comuni per la definizione di politiche e standard globali nell’energia e nell’agricoltura.

Voglio ricordare il doppio errore dell’Unione Europea che alla Conferenza sul clima dell’Aja nel 2000 provocò la rottura con gli USA, anticamera della loro uscita dal Protocollo di Kyoto, mentre nel 2009 fu la causa principale del fallimento della Conferenza di Copenaghen riuscendo a coalizzare USA, Cina, India e Brasile contro le posizioni europee. E bisogna ricordare che dietro le posizioni “radicali” della Ue non c’erano politiche europee radicali. Basti pensare al dieselgate che qualche anno dopo ha messo in evidenza il trucco demagogico adottato dal regolamento europeo del 2007.

L’accordo di Parigi del 2015 aveva apparentemente “ricucito” la solidarietà internazionale sui cambiamenti climatici. Ma era evidente che l’adesione di Obama senza l’assenso del Senato USA era una premessa per l’uscita dall’accordo, come puntualmente è avvenuto con Trump. Dopo 30 anni molte cose sono cambiate, in meglio ma anche in peggio.

Già l’aumento di “soli” 2°C potrebbe essere “la scintilla di un effetto domino incontenibile”

In meglio: IPCC ha esteso la partecipazione delle istituzioni scientifiche al suo lavoro, in particolare con un ruolo sempre crescente di esperti e Università di Cina e India, e affinato le metodologie di analisi e previsione. Le Agenzie governative degli USA, nonostante le posizioni negazioniste o scettiche dell’Amministrazione, continuano a documentare e “certificare” gli effetti dell’aumento della temperatura e dei cambiamenti climatici.

La Cina ha assunto la leadership mondiale nello sviluppo delle tecnologie e dei sistemi a bassa “intensità di carbonio” con piani e programmi di lungo periodo avviati negli ultimi 10 anni, dissociando in modo significativo la crescita economica dalle emissioni di carbonio. L’India ha iniziato a muoversi nella stessa direzione.

Nonostante molte incertezze, legate soprattutto alle pressioni USA sulla politica energetica europea, Unione Europea e Cina stanno costruendo pezzi di una “piattaforma” scientifica e tecnologica per la “decarbonizzazione” che potrebbe avere un effetto trainante sull’economia globale.

In peggio: Tra il 1990 e il 2019 le emissioni globali di CO2 sono aumentate di circa il 70%, la concentrazione in atmosfera di CO2 ha superato abbondantemente la soglia critica delle 400 parti per milione (412) con un aumento di quasi il 20%, mentre la temperatura media del pianeta è cresciuta di circa un grado, il doppio rispetto ai primi 90 anni del 1900.

Secondo l’Agenzia USA per l’Atmosfera e gli Oceani (NOOA), questi dati segnalano un trend di crescita della temperatura media del pianeta tra 3° e 4°C entro la fine del secolo. Da notare che il rapporto“Trajectories of the Earth Systemin the Anthropocene, pubblicato nell’agosto 2018 dalla prestigiosa National Academy of Sciences degli USA, sostiene che già l’aumento di “soli” 2°C potrebbe essere “la scintilla di un effetto domino incontenibile”, con modificazioni dei regimi climatici e l’intensificazione di eventi estremi che mettono a rischio in molte regioni del pianeta da un lato la struttura e la stabilità dei sistemi di approvvigionamento idrico, agricolo ed energetico e dall’altro la sicurezza delle zone costiere soprattutto nelle zone più povere o di recente sviluppo.

Il rapporto di IPCC non aggiunge nulla di nuovo a quello che era stato previsto nel 1990. Ma mette in evidenza che senza politiche i rischi sono altissimi

I dati certificano che le misure fin ad oggi adottate a livello internazionale (Protocollo di Kyoto, Accordo di Parigi) non sono sufficienti e adeguate, soprattutto perché incidono marginalmente sulle politiche energetiche, agricole e per l’uso del suolo.

E mettono inoltre a nudo la contraddizione tra le dichiarazioni solenni e “ispirate” dei leader negli ultimi 30 anni,e le politiche industriali e agricole dei paesi da loro governati: non è un giudizio morale sui leader ma la presa d’atto della divergenza o “schizofrenia” tra gli accordi e i programmi politici sui cambiamenti climatici e la “real life” dell’economia e della politica.

Il limite sta tutto nella mancanza di regole e standard comuni a livello globale per orientare: la transizione energetica verso la decarbonizzazione e l’ottimizzazione delle risorse energetiche rinnovabili; l’agricoltura e l’uso del suolo in modo da rafforzare ed estendere la capacità di assorbimento del carbonio atmosferico; la protezione delle foreste e la riforestazione delle aree maggiormente esposte alla siccità ed all’erosione; il ciclo produttivo e di consumo dell’alimentazione umana e animale in modo da ridurre “l’intensità di carbonio”.

La carbon tax, la connessione “intelligente” e ad alta capacità tra reti elettriche per il trasporto delle energie rinnovabili, misure compensative per le economie che dipendono maggiormente dall’agricoltura e dallo sfruttamento delle foreste, standard di produzione e commercio per gli alimenti. Queste misure sono “tecnicamente” possibili, ma richiedono un negoziato paziente per comporre le diversità dei bisogni e delle economie, sostenuto da una visione di lungo periodo che vada oltre le scadenze elettorali o i cambi di regime.

Il rapporto di IPCC non aggiunge nulla di nuovo a quello che era stato previsto nel 1990 e che vediamo oggi nella frequenza di eventi climatici estremi e cruenti, nella deforestazione dei “polmoni” del pianeta, negli incendi delle foreste boreali, nell’erosione dei suoli, nella acidificazione degli oceani. Ma mette in evidenza che senza politiche i rischi sono altissimi, non solo per le economie dei paesi più poveri ma anche per la crescente vulnerabilità delle economie più sviluppate. E non ci saranno muri capaci di difendere i singoli paesi dagli effetti dei cambiamenti climatici globali.