Matteo Salvini ha aperto la crisi e Giuseppe Conte, che non guida un “governo del popolo” ma una coalizione parlamentare, non si dimette e vuole venire a farsi sfiduciare in Parlamento. Ci ricordiamo tutti, vero, che la coalizione giallo-verde è frutto di un accordo parlamentare a tavolino fatto dopo le elezioni e che ha richiesto settimane e settimane per formare un Governo?
E però adesso tutti fanno il gioco di Salvini, facendo a gara a chi preannuncia per primo “battaglia alle prossime elezioni”, come se fossero inevitabili e imminenti.
Ora, che le chieda Salvini non stupisce: si porrà più avanti il problema di dover gestire la vittoria elettorale e la legge di bilancio; anche perché potrebbe benissimo avere un’agenda nemmeno troppo segreta di deriva autoritaria, fatta di muri, compressione delle libertà individuali, costruzione di uno stato di polizia, uscita dall’euro. In quest’ultimo caso, più caos c’è, meglio per i suoi piani. Che le elezioni le chieda Giorgia Meloni, e con lei quella parvenza rimasta di Forza Italia più destrorsa e meno liberale, è pure comprensibile: sono pronti a dare a Salvini i “pieni poteri” che chiede e a essere parte integrante di un governo illiberale che considera il parlamento e la Costituzione un inutile freno e orpello.
Ma che le chiedano anche gli altri è decisamente meno comprensibile. Perché gli altri non possono permettersi di giocare a poker e di “andare a vedere le carte”: se scoprissimo infatti che Salvini non stava bluffando, sarebbe troppo tardi per tornare indietro.
È meno comprensibile, quindi, che a chiedere il ritorno alle urne subito siano pure il PD e i Cinque Stelle.
Molto del potere e della crescita di Salvini dell’ultimo anno è infatti legato al suo ruolo di governo, come ministro dell’interno e “ministro di tutto”
Il Pd non pare ultimamente capace di mettersi d’accordo su una mozione di sfiducia, o sulla strategia relativa ad una mozione sul Tav. Figuriamoci se sarebbe pronto, in poche settimane, a mettere in campo persone e idee capaci di incarnare una alternativa credibile e contrastare Salvini. Certo, molti elettori, per paura di Salvini, voterebbero Pd (o una lista più ampia guidata dal Pd). Ma sarebbe una lista assolutamente inadeguata e insufficiente ad arrestare la deriva. Servirebbe a Nicola Zingaretti a farsi un gruppo parlamentare di scelti da lui e a preservare l’illusione di fare opposizione. Ma non necessariamente servirebbe alla manutenzione della democrazia in questa delicatissima fase storica.
Stesso ragionamento vale a maggior ragione (perché su scala più piccola) per partiti di opposizione con numeri più risicati, come +Europa: anche in questo caso potrebbero al massimo aspirare ad eleggere qualche parlamentare, in un Parlamento e un Paese dominato da chi non avrebbe problemi a rendere questo manipolo, e in generale tutta l’opposizione, irrilevante.
I CInque Stelle, infine, sono ugualmente – come il Pd, anche se per ragioni diverse – in grande confusione: non avrebbero mai pensato di poter dimezzare i propri consensi in un anno, e almeno una parte – in queste ore credo sempre meno marginale – dei parlamentari grillini, che non condivide le pulsioni destrorse di Luigi Di Maio, si è ritrovata ad ingoiare più di una misura all’opposto di quello per cui da sempre diceva di fare politica, da ultimo il decreto Sicurezza bis. Con la beffa che non è nemmeno servito a far campare il governo per chissà quanto altro tempo ancora.
In tutto questo, Di Maio, nel pieno della crisi di Governo e con una democrazia sottoposta ad uno stress test con pochi precedenti, che fa? Torna a parlare di taglio dei parlamentari! Nel momento in cui Salvini è ad un passo da abolire di fatto il Parlamento e a snaturare la democrazia del Paese, Di Maio è fermo a due, a cinque anni fa. Non capisce che la gente vota per l’originale e che il clima di rancore e odio alimentato negli ultimi anni, e in particolare in questi mesi, rende il taglio dei parlamentari una misura timida, a fronte di chi ti promette di mettere tutto – “i pieni poteri” – nelle mani di uno solo che decide, dispone, impone.
Molto più intelligente sarebbe invece calendarizzare subito la revisione del decreto Sicurezza bis alla luce dei rilievi fatti dal Quirinale. Si tratterebbe di un bel banco di prova per tutti i gruppi politici e per ciascun parlamentare; e di un bel segnale di attenzione e fiducia nei confronti del Capo dello Stato.
Se tutti i leader dicono infatti solo “al voto, al voto”, Sergio Mattarella finisce con le spalle al muro. Abbiamo il dovere di offrirgli un’alternativa
Contro l’idea di non far precipitare tutto e votare subito non vale neppure l’argomento che un governo alternativo sarebbe un favore a Salvini, dal momento che gli darebbe modo di fare una campagna elettorale permanente contro il nuovo governo, contro l’inevitabilmente difficile e dura prossima legge di bilancio, e che il suo consenso aumenterebbe ulteriormente per poi andare all’incasso a febbraio. Non vale per una ragione semplice. Perché vorrebbe dire arrendersi subito. Votare adesso potrebbe portare a mettere il Paese nelle mani di Salvini senza possibilità di ritorno. È possibile certo che un governo tecnico o di transizione lo rafforzi, se dura qualche sparuto mese; ma tanto vale provare a vedere se c’è una strada che magari rimetta Salvini in panchina non per 5 mesi, ma per almeno un paio d’anni; molto del potere e della crescita di Salvini dell’ultimo anno è infatti legato al suo ruolo di governo, come ministro dell’interno e “ministro di tutto”.
Io penso che sia il momento di far funzionare davvero la democrazia parlamentare. Non c’è più un governo, ma ci sono ancora una Camera dei Deputati e un Senato della Repubblica. È il momento per ogni parlamentare di ricordarsi che non è solo un pigiabottoni, o un sottoscrittore di emendamenti e mozioni; che ci sono momenti della storia in cui ciascuno si ritrova a dover esercitare, individualmente e con la propria coscienza, una responsabilità più grande anche di quella che pensava di avere. Che il Parlamento faccia dunque il lavoro che gli compete in questa fase.
C’è una insofferenza enorme tra i banchi dei Cinque Stelle, del Pd e di Forza Italia. È tempo di canalizzarla intelligentemente. Perché molto, ma non tutto, è nelle mani del Presidente della Repubblica. Se tutti i leader dicono infatti solo “al voto, al voto”, Sergio Mattarella finisce con le spalle al muro. Abbiamo il dovere di offrirgli un’alternativa.
*capogruppo +Europa alla Camera dei Deputati