Siamo nell’agire dell’emergenza – e va custodito, il suo urlo, cucciolo di tigre. C’è perfino una docenza nel precipizio. Lo vedo così, il gesto critico di Arnaldo Colasanti: visto che la poesia non ha più credito né carisma – avvilita, piuttosto, segno apocalittico madornale per cui l’autentico è confuso per fasullo e viceversa, da orde di lirici presunti, patentati, spazientiti, che si leggono tra loro, senza leggere, in favore di faro della celebrità – tanto vale non credere in altro, e gettarsi. Il suo “Progetto di critica della poesia contemporanea” – di cui questo foglio digitale ha già dato spazio – che s’intitola “Cantieri del Nord” è così assurdo da apparire come un monastero. Colasanti, in pellegrinaggio editoriale – nel senso che pubblica qua e là, per lo più con piccoli editori di genio – compila studi miliari sui grandi poeti di oggi. Dopo Claudio Damiani (Castelvecchi, 2018) e Valerio Magrelli (Quodlibet, 2018), ora è la volta di Dario il grande. La poesia di Dario Bellezza (CartaCanta, 2019), poi toccherà a Giancarlo Pontiggia e ad Amelia Rosselli, sono già previsti volumi dedicati a Pietro Tripodo e a Milo De Angelis, e via, in questa sorta di lavoro enciclopedico e mistico insieme, non cattedratico, piuttosto, catturare la cattedrale. Ma chi glielo fa fare?, verrebbe da dire. Non c’è altro da fare, in effetti, dovremmo rispondere, all’acme della ragionevolezza, per non vivere quella che Jakobson diceva Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Qui, ora, non c’è neanche ladissipazione (la dispersione), ma il rebus dell’oblio, lo stato vegetativo, lo status del poeta che decora una sala della Feltrinelli, la contraffazione dei segni (cioè: il regno del signore delle mosche), la poesia che sbeffeggia la poesia, la non-poesia ostentata come poesia, brandita come un incensiere. Eppure, “Vale tutta la vita vivere nella dolcezza folle della poesia”: con questa frase Colasanti chiude il libro su Bellezza. Non c’è ingenuità, ma limpidezza: la poesia di Bellezza – come quella dei poeti interpellati e letti da Colasanti con la stessa energia con cui si leggono i ‘classici’, eccola la rivoluzionaria dedizione – è attraversata in un esercizio di perdizione e di ricerca, dove c’è Dio e Minotauro, Hegel e García Lorca, “la cronaca dei giorni” e la scala del Paradiso, Elsa Morante, Sandro Penna e il tuono di ricordi di sanguinosa vivezza, in questo “poeta di segreti inconfessabili”. D’altronde, la poesia esige tutto – foss’anche la morte del poeta – per dare ai propri denti natura di rivelazione. “La letteratura di quegli anni è stata clamorosamente una grande tragedia irrisolta… Ci voleva dunque un urlo liberatorio e quell’urlo fu straziante, atroce, scandaloso, elegiaco, quasi oltre la barriera della sonorità di una generazione”, scrive Colasanti. Prima, ne aveva scritta un’altra, di eclatante innocenza – perché è crudele l’innocenza. “La poesia ci ha salvati”. (d.b.)
Dario Bellezza: perché, ora, lui? Come si insedia nel tuo lavoro Cantieri del Nord?
Bellezza e i poeti e scrittori, specie romani, a lui contemporanei non ha potuto evitare il tema storico della “morte della letteratura”. Ma qui è la differenza della sua poesia. Bellezza, attraversando a pieno questo tema delirante, ha gridato le ragioni della poesia, ci ha dato l’“urlo” di una poesia che poteva essere ancora poesia, ovvero la sua unità con la vita. Bellezza è per me chi ha salvato un’intera generazione di poeti giovani (per esempio, la mia generazione: la rivista “Braci”), offrendo la radicalità di una poesia che voleva fortemente riproporre il senso delle cose. In tale prospettiva, Bellezza ha stretto a sé la radicalità di Attilio Bertolucci con quella di Elsa Morante: lo stesso Pasolini o Penna sono stati collocati in una genealogia mitica finalmente non più gerarchica, che appunto presuppone ma non condiziona, né origina, tanto meno imprigiona la forza lirica ed etica della centralità del verso. La migliore poesia romana degli anni Ottanta nasce da questo, sebbene sia fondamentale anche il lavoro delle riviste “Niebo” e di “Scarto minimo. Non ne potevo più di vedere Dario Bellezza incastrato nel mito del maledettismo: Bellezza era ed è il poeta della pura classicità della lingua. In definitiva, ho letto Dario Bellezza fuori dallo stereotipo che ancora una volta il modernismo sperimentale ha voluto imporre. E non è un caso se ho letto, con il Polittico del sangue amaro, la poesia di Valerio Magrelli non quale la testimonianza di un ritorno all’ordine della razionalità. Ho visto il contrario: un Magrelli che è poeta dell’errore linguistico e del tic e che, in questo, sa “costruire” l’urgenza di una profonda metafisica della condizione umana, senza cadere nell’astrazione.
Dario Bellezza è centrale nella poesia contemporanea così come Amelia Rosselli, la quale sarà il tema di una tua monografia che uscirà nel 2020.
Amelia Rosselli è per me la negazione di una generica sperimentazione. Il mio studio sarà la verifica di come la norma del linguaggio, condotta sui margini dell’estremo, sia ancora una volta l’unità del significato delle cose. Come dire: la Rosselli non è il segno della faglia o peggio della pazzia; Amelia era ed è la poetessa della certezza conoscitiva.
Ti chiedo di spiegare alcune tue affermazioni. “Ho letto Dario come il grande funerale o come la terribile, inesausta, messa in scena di una resa collettiva”. Cosa significa?
Il contesto storico sono gli anni Settanta: il crollo politico del centrosinistra socialdemocratico e il passaggio, fatto abortire, ad una governabilità repubblicana. Bellezza si è fatto carico del grande funerale collettivo, ma, al tempo stesso, ha offerto alla nostra identità moderna di italiani una grammatica di dignità e una narrazione di valori pubblici condivisibili. In altri termini, la poesia di Dario Bellezza è stata la più grande riflessione politica sull’Italia postdemocratica, quella che si svela con furia dagli anni Novanta.