Faraone, Gozi, Scalfarotto. Tre nomi tutt’altro che casuali. Tre nomi che rappresentano a pieno su quali binari Matteo Renzi stia costruendo l’identità del partito che verrà. Sul cui futuro pesa come un macigno la sempre più probabile crisi di governo, con conseguenti elezioni anticipate, che potrebbero fungere da acceleratore. Davide Faraone, ormai ex segretario del Pd siciliano (in rotta totale con il nuovo corso di Zingaretti), divenuto, dopo la sua esperienza a bordo della Sea Watch, simbolo della lotta contro la sbandierata disumanità salviniana, rappresenta la componente “stay human” del renzismo. Sandro Gozi, giramondo dem, finito alla corte di Emmanuel Macron a Parigi, dopo essersi candidato alle europee in Francia e aver fatto il consulente in Senato visto che non era riuscito a farsi rieleggere in Parlamento alle scorse politiche. Il suo legame con il presidente francese (e con le varie cancellerie europee) è noto. Tanto da farlo diventare vero e proprio ambasciatore dell’ex premier in tutto il continente. Rappresenta l’anima internazionalista del renzismo, l’immagine globalista dell’uomo che vuole stare al passo con il mondo più avanzato.
Ivan Scalfarotto, ormai storico collaboratore di Renzi. Ha fatto discutere molto la sua visita in carcere al reo confesso giovane cittadino americano, principale imputato per l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega. Un atto, quello compiuto da Scalfarotto, che ha scatenato ire ed ironie di leghisti e pentastellati, e provocato non pochi mal di pancia anche in casa dem. Non tanto e non solo per la visita in sé, quando più per il fatto che non era stata concordata con la segreteria. In realtà nulla di ciò che sta facendo Renzi è concordato con la segreteria. E questa, che può sembrare improvvisazione, è invece una precisa strategia dell’ex premier. Con obiettivi plurimi: marcare la differenza con i populisti (evocando quindi valori esattamente opposti alla narrazione mainstream del momento, dall’Europa all’accoglienza, dai diritti al garantismo); mettere in difficoltà la leadership del Pd, che invece sta facendo prove di equilibrismo estreme per far emergere le contraddizioni della maggioranza; definire il profilo e i confini del partito che verrà.
Perché il partito nuovo verrà, ormai non c’è più dubbio. In molti tra quelli che stanno più vicini a lui sostengono che “la prossima Leopolda sarà l’occasione in cui Matteo sgancerà la bomba”. Anche se, a questo punto, il nodo vero sarà capire in quale contesto politico si arriva alla Leopolda di ottobre (che, non a caso, già si vocifera che potrebbe essere anticipata). Ciò che è successo in Aula del Senato sulla Tav, oltre che la pietra tombale sull’esperienza di governo, potrebbe rappresentare uno spartiacque decisivo per il Partito Democratico che, dopo mesi di tira e molla, potrebbe finalmente arrivare ad una separazione consensuale. D’altronde, anche in questo delicato passaggio, non sono mancati i distinguo, con la segreteria che era orientata ad un’astensione per mettere ancora più in evidenza la spaccatura tra Lega e M5s e il gruppo dem a Palazzo Madama, una ridotta renziana, che ha invece imposto che il Pd votasse a favore di tutte le mozioni pro-Tav.
Ormai lo spazio di azione politica comune nel Pd è completamente esaurito
È stato solo l’ultima, plastica, dimostrazione che ormai lo spazio di azione politica comune nel Pd sia completamente esaurito. Come avevano già messo in chiaro le differenze di vedute sulla presentazione della mozione di sfiducia nei confronti di Salvini e la vicenda dell’intervento di Renzi, previsto e poi cancellato, nel corso del dibattito sull’informativa di Conte. Solo per citare i precedenti più freschi. Ora che il voto a breve sembra ormai cosa certa, Renzi è seriamente intenzionato a rompere gli indugi. Il primo motivo è prettamente politico. Il “nuovo Pd”, come ama definirlo Zingaretti, non è più casa sua. Troppi i distinguo su quella che era stata la linea del suo governo, soprattutto dal punto di vista economico. Vi è poi un motivo personale, dato che i rapporti sono ormai logori. Non tanto tra l’ex premier e l’attuale segretario, quanto più con uomini di primo piano del nuovo corso, a partire da Dario Franceschini e Paolo Gentiloni. E infine c’è una questione strategica. Renzi ritiene che il Pd non sia più in alcun modo funzionale a quello che resta il suo principale obiettivo: tornare a Palazzo Chigi. E così, se davvero si dovesse votare ad ottobre, al 99% il nuovo soggetto renziano prenderà vita e si presenterà alle elezioni separato dal Partito Democratico. D’altronde sono mesi che l’ex leader si muove in completa autonomia, mettendo a punto lo scheletro del futuro partito, dai comitati civici alle scuole di formazione, fino ad azioni politiche del tutto autonome, come ha dimostrato la rocambolesca vicenda della doppia petizione per sfiduciare Salvini.
Il grande tema aperto all’interno del Pd è capire ora come si muoverà il corpaccione degli ex fedelissimi renziani, la maggior parte dei quali è confluita nelle componente chiamata Base Riformista, la più numerosa nella frastagliata galassia dem. Dando per scontato che l’area giachettiana seguirà acriticamente le mosse di Renzi, è fondamentale capire come si muoveranno i membri della corrente guidata da Lorenzo Guerini e Luca Lotti. Difficile fare previsioni, ma è noto che Guerini sia diventato una sorta di pontiere tra Zingaretti e la minoranza, aprendo un canale stabile con Franceschini con l’obiettivo di trovare un equilibrio nuovo nel Pd e superare la dialettica tra renziani e anti-renziani.
Inutile dire che, in caso di elezioni anticipate, saranno decisive le rassicurazioni che Zingaretti sarà in grado di garantire nell’ottica di una composizione delle liste che riconosca ampio spazio a Base Riformista. Garanzia che, al tempo stesso, Renzi non può e non vuole dare. In primis perché non ha alcuna intenzione di costruire un partito sul contributo dei notabili e poi perché difficilmente la nuova formazione potrà ottenere alle elezioni un risultato tanto rilevante da soddisfare la sete di poltrone dei tanti parlamentari che lui stesso aveva messo in lista un anno e mezzo fa. Mai come in questo caso, non è eccessivo dire che le prossime ore saranno decisive. Non solo per il governo, ma anche per il Pd.