Il suo modello era Marine, la donna che ha normalizzato il Front National. Ha finito per diventare come il padre-padrone, Jean-Marie Le Pen, lo spauracchio della Repubblica francese, il più grande interprete dell’arte di terrorizzare l’opinione pubblica, spingendo tutti nella stessa posizione: coalizzarsi contro di lui.
Chiunque vorrebbe sapere cosa diavolo sia passato per la testa di Matteo Salvini il giorno in cui ha deciso di staccare la spina al primo governo populista d’Europa, senza nemmeno premurarsi di chiudere prima il Parlamento, come ha fatto prudentemente Boris Johnson in Gran Bretagna. Forse, un giorno lo racconterà. Ammesso che non abbia già rimosso le ragioni del suo auto-inflitto 25 luglio, come l’ha definito Alessandro Giuli.
Sta di fatto che, per farsi accettare, e dunque sperare di poter andare al governo, Marine Le Pen ha dovuto puntare sulla strategia della dédiabolisation, scrollandosi di dosso le anticaglie del vecchio partito guidato dal padre, il fantasma della Repubblica di Vichy, la memoria dell’Algerie française, i campi di concentramento definiti un”dettaglio” della storia, le fascisterie. Per convincere i francesi di non essere (più) un pericolo pubblico. Cercando di presentarsi di fronte a loro dicendo: “Ehi, siamo come tutti gli altri, potete votarci tranquillamente, non abbiamo in mente nient’altro che di governare secondo le regole stabilite”.
Matteo Salvini si è andato a cacciare proprio lì, nella ridotta dei banditi dal sistema, nella tana del lupo brutto sporco e cattivo, nel rifugio dei pericolosi
Matteo Salvini, invece, il giorno in cui ha chiuso l’esperienza gialloverde, è sceso dal palco del suo comizio, a Pescara, e ha chiesto agli italiani di dargli i “pieni poteri”. Tenendo a specificare di avere anche una certa fretta di ottenerli. Incurante dei regolamenti parlamentari, delle prerogative degli eletti, e dei mojito che i suoi colleghi stavano bevendo in spiaggia, seppure lontano dal Papeete. “Deputati e senatori alzino il culo e vengano in Parlamento”, ha intimato. Non nascondendo un certo disprezzo per i ritmi della democrazia parlamentare. Come va ancora di moda fare. Sottovalutando, però, che anche il fastidio anti-casta è un sentimento da maneggiare con cura. Almeno, in certe circostanze.
E insomma Matteo Salvini è andato nella direzione opposta a quella che ha percorso Marine Le Pen, che pure è stata il suo modello di riferimento per la nazionalizzazione della Lega. E mentre la Signora in nero ha speso gran parte della sua carriera nel cercare di togliersi dall’angolo in cui gli avversari hanno stretto il padre Jean-Marie − l’appestato minaccioso, l’anti sistema da arginare con tutto il buon cuore democratico, l’uomo contro il quale era necessario alzare gli argini repubblicani − Matteo Salvini si è andato a cacciare proprio lì, nella ridotta dei banditi dal sistema, nella tana del lupo brutto sporco e cattivo, nel rifugio dei pericolosi.
Ha schierato di fronte a sé il plotone della propria esecuzione, fornendo agli avversari un collante dentro il quale trovarsi uniti in nome del no a lui. Per di più, dando al presidente del consiglio del governo che ha fatto nascere − quello gialloverde − la possibilità di dirgli, senza risultare a molti improprio: “Matteo, ti ho sentito invocare le piazze a tuo sostegno. Questa tua concezione, permettimi di dirlo, mi preoccupa”.
Matteo Salvini non ha dietro di sé nemmeno il passato di una Giorgia Meloni, l’eredità di un partito nipote di Almirante, arrivato alla fine della storia della destra post fascista italiana. Anzi, avrebbe dalla sua parte l’esempio di un padre come Umberto Bossi, che, il 25 aprile del 1994, mentre in piazza si riadattava l’antifascismo alla lotta contro Berlusconi, andò tra i manifestanti a ribadire che la lega Nord non era antifascista così, era anti fascista cosììì. Marine Le Pen si è dé-diabolisé. Salvini, invece, ha fatto il contrario: si è auto demonizzato. Certo, potrà sempre dire: “Tanti nemici, tanto onore”. Però.