“Rights, not rescue” (Diritti, non salvataggio) era uno fra i tanti slogan letti nel corteo di spogliarelliste martedì scorso a Sheffield, cittadina a nord d’Inghilterra. Parrucche colorate, capi succinti, leggings leopardati e qualche maschio (ma pochi) per un corteo di festeggiamenti perché il comune, dopo una seduta di otto ore, ha deciso: lo strip club Spearmint Rhino (parte di una catena presente in UK, US e Australia) non chiuderà. La maggior parte dei giornali ha presentato la notizia un po’ come se fossimo davanti a un film di Romero o un B movie dove delle femministe vampiresche e assatanate di purezza e castità hanno perso contro loro, le spogliarelliste, gioia promiscua e anarchica. Una narrativa che diverte, ma questo non è un film, è in verità una questione intricata, che porta a dilemmi e questioni.
Cosa è successo: dopo anni di battaglie per chiudere il locale, lo scorso febbraio la campagna anti porno e anti strip club Not Buying it decide di usare mezzi controversi per arrivare al proprio fine: quello di farlo chiudere. Assolda degli investigatori privati (pensiamo siano uomini) per filmare le ballerine con i clienti dentro lo Spearmint, alla caccia di violazioni per revocarne così la licenza. E così è successo: in alcuni video si vedono molti incontri fra ballerine e clienti che non rispettano la regola – necessaria per la licenza – del non toccare (Look but don’t touch). Da questo parte l’indagine del comune, che ammette queste violazioni, ma, dopo aver accertato che il management non ne fosse al corrente, ascolta le parti e decide di non chiuderlo. Così martedì le ballerine hanno celebrato la vittoria per le strade della città, a suon di “Twerking class hero” (a riprendere il working class hero di John Lennon), “My body is not your bussiness”, accusando gli attivisti che hanno realizzato le registrazioni sotto copertura di “revenge porn” (e l’accusa va proprio a un’associazione anti-pornografia), ritenendolo un atto a dir poco intimidatorio. Quelli di Not Buying it? dicono di non aver avuto scelta, i video erano giustificati dalla loro missione: quella di provare quanto il club sia un luogo dove la danza e i topless siano in molti casi solo una copertura con dietro storie di molestie e abusi. Sulla decisione finale del comune la delegata del gruppo ha detto che è stata una “notizia scioccante”, aggiungendo che i resoconti positivi forniti da coloro che lavorano nel club e la loro determinazione a tenerlo aperto hanno dimostrato il controllo che la catena ha sulle sue ballerine.
Siamo complesse e sfaccettate come chiunque altro e in realtà i clienti ci trattano come persone, più delle presunte femministe
Charlotte Mead, capo dell’associazione Sheffield Women’s Equality e sostenitrice di Not Buying it, non si dà per vinta, dice che continueranno la campagna dato che gli strip club son luoghi che “contribuiscono a una cultura in cui gli uomini si sentono in diritto sui corpi delle donne” e che danneggiano la parità di genere. Meera Kulkarni del Sheffield Rape and Sexual Abuse Centre afferma quanto le donne che lavorano negli strip club abbiano spesso un passato di abuso e violenza sessuale. Affermazioni non gradite alle ballerine, come Heather Watson, che dichiara al The Guardian che, pur ammettendo che ci sia molto lavoro ancora da fare per rendere “l’industria più sicura e giusta”: ”non siamo oggetti sessuali come siamo state descritte”. Aggiungendo: “siamo complesse e sfaccettate come chiunque altro e in realtà i clienti ci trattano come persone, più delle presunte femministe”, rifiutando così a piè pari il ruolo di vittime. Rosa Vince, ricercatrice di filosofia specializzata in oggettivazione sessuale e residente a Sheffield, si è dichiarata contraria alla campagna: “Come femministe dobbiamo preoccuparci del consenso al contatto sessuale, e questo implica credere alle donne quando affermano che il consenso è presente, così come quando dicono che è assente”. Ha sostenuto che, in caso di problemi di sfruttamento o di cattive condizioni di lavoro, la soluzione non era quella di far di tutto per chiudere il locale ma di aiutare le lavoratrici ad acquisire maggiori tutele.
Quella che poteva diventare un’occasione per migliorare le ocndizioni di lavoro per le stripper dello Spearmint Rhino è diventata una battaglia ideologica fra donne che rischia di portare alla formazione di due tifoserie
Pare proprio così: quella che poteva diventare un’occasione per migliorare le condizioni di lavoro per le stripper dello Spearmint Rhino è diventata una battaglia ideologica fra donne che rischia di non portare a molto se non alla formazione di due tifoserie: le femministe, forse middle class, che vogliono salvare, ma non aiutare, le ballerine perché vedono nello strip e nella pornografia uno strumento di denigrazione della donna e preambolo di violazioni più grandi (e paradossalmente le soccorrono chiudendo il loro posto di lavoro), e le ballerine working-class (forse più femministe di loro) che invece non vogliono essere salvate, ma che chiedono più diritti e controlli (Right, not rescue, ndr) e si ribellano a questa forma di paternalismo. Rachael McCoy, stripper del Spearmint, ha detto alla BBC: “Sono una mamma single. Questo lavoro aiuta a mantenere la mia famiglia, i miei bambini. Questo lavoro ha in verità cambiato la mia vita in meglio”. Ha 37 anni, è un’adulta, perché non dovremmo crederle?