Riversata nell’Oceano, come un veleno iniettato in culla. La dichiarazione d’intenti arriva dalla società Tokyo Electric Power, gestore della centrale nucleare giapponese di Fukushima: il Giappone verserà nell’oceano Pacifico acqua radioattiva proveniente dai budelli nucleari della centrale danneggiata dal sisma e dallo tsunami di marzo 2011. Lo ha annunciato il ministro dell’Ambiente Yoshiaki Harada, sottolineando che si tratta dell’unica opzione possibile.
La società di smaltimento, da circa otto anni, ha stoccato più di un milione di tonnellate di acqua contaminata, proveniente dai condotti di raffreddamento dei reattori, al punto da non avere più spazio a disposizione per immagazzinarne altra. «L’unica soluzione è quella di versarla in mare e diluirla», ha detto il ministro durante un briefing informativo a Tokyo.
Pronta la risposta di Kazue Suzuki, della campagna Energia di Greenpeace Japan. «L’acqua contaminata radioattivamente attualmente immagazzinata a Fukushima Daiichi non dovrebbe essere rilasciata nell’oceano», dice. «Il mare non è una discarica. Il mare è una casa comune per tutte le persone e le creature e deve essere protetto».
Le proposte di Greenpeace Japan sono chiare e dirette. «In primis non rilasciare intenzionalmente l’acqua contaminata nell’Oceano. E soprattutto l’acqua contaminata deve essere conservata a lungo termine e la tecnologia per la separazione del trizio dovrebbe essere sviluppata», conclude l’attivista. L’emorragia, se messa in atto, rischia seriamente di sferrare il colpo di grazia a un ecosistema colpito già duramente in questi anni, sotto tutte le forme possibili di inquinamento.
L’Oceano, non potendo disintegrare questi elementi, li “mobili”: cioè in grado di passare all’interno delle microalghe e di conseguenze in vari tipi di pesci
«Le conseguenze di questa manovra possono essere estremamente gravi. La logica di autodepurazione del mare, in voga negli anni ’40, è totalmente errata», spiega Roberto Danovaro, professore ordinario di Ecologia presso l’Università Politecnica delle Marche. «C’è solo un elemento più dannoso dei metalli pesanti per l’ecosistema marino, e sono i composti radioattivi. Che agiscono in due modi, uno per l’inquinamento della scoria stessa e uno per le radiazioni: con un picco di pericolosità nel momento in cui vengono ingerite».
L’Oceano, non potendo disintegrare questi elementi, «li rende “mobili”: cioè in grado di passare all’interno delle microalghe e di conseguenze in vari tipi di pesci», continua Danovaro. La successione degli eventi ci porta direttamente sulle nostre tavole, o in quelle dei numerosi sushi restaurant che tappezzano lo Stivale. Ricordando che da luglio 2018 i vertici dell’Unione europea hanno firmato a Tokyo un accordo di libero scambio con il Giappone, il Jefta (Japan-Ue free trade agreeement), con il quale si apre anche all’importazioni di alcune varietà di molluschi e di pesci delle coste nipponiche (la cui industria ittica conta il primato di settore primario dell’economia).
Ma non finisce qui. «Non bisogna sottovalutare poi il sistema di circolazione marino, il quale parte dal pacifico, sfiora le coste del Giappone e riporta attraverso l’Atlantico tutti questi elementi direttamente in Europa», compresa l’Italia. «Tutto questo ci interessa direttamente. Le correnti impiegano dai trenta ai quaranta anni intaccando pesantemente la salute delle future generazioni», notifica il professore.
Dalla fine degli anni Settanta sarebbero almeno 30 le navi, con a bordo rifiuti radioattivi, affondate nel Mediterraneo in circostanze ambigue. E per Camorra e per traffici dal Nord Europa, il Mediterraneo è una discarica di rifiuti tossici e radioattivi, pronti a disperdersi nell’ambiente
Attenzione, quindi, a sottovalutare o circoscrivere la chiazza di miasmi e il suo effetto esclusivamente al Paese del Sol levante. La pericolosità delle radiazioni, tatuata nelle nostre menti dopo i ben noti disastri russo e per l’appunto giapponese, potrebbe altresì trovare cittadinanza direttamente in seno all’Europa. Se le promesse del ministro giapponese, infatti, dovranno passare sulla scrivania dell’Autorità internazionale, con uno sguardo particolarmente attento se si parlerà di depositi delle scorie sui fondali, i problemi italiani non si esauriscono qui.
E qui si apre il problema delle “navi a perdere”. Dalla fine degli anni Settanta, sarebbero almeno 30 le navi, con a bordo rifiuti radioattivi, affondate nel Mediterraneo in circostanze ambigue. E per Camorra e per traffici dal Nord Europa, il Mediterraneo è una discarica di rifiuti tossici e radioattivi, pronti a disperdersi nell’ambiente. «Le preoccupazioni principali per l’Italia, da un punto di vista ambientale, sono legate al trasporto di idrocarburi e di greggio attraverso il Mediterraneo. Non per questo le navi con all’interno fusti tossici sono un punto da sottovalutare, in quanto, in parole povere, tutto quello che buttiamo in mare, prima o poi, ce lo rimangiamo: dal sushi alla nostra sogliola», chiosa Danovaro. La parola adesso passa alle potenze mondiali: il microfono è acceso e tutti attendono una presa di posizione figlia dei tempi moderni, lontana dai disastri delle centrali e vicina a uomo e ambiente.