Ad un certo punto il protagonista de L’età della tigre (Il Saggiatore) di Ivan Carozzi, che è Ivan Carozzi stesso, incontra tre ragazzi nell’ambito di una iniziativa del Ministero dell’Istruzione, per parlare di musica trap e di cosa significa per loro. Si legge, in quel momento, la frattura e la distanza (non solo anagrafica, ma quella anagrafica è una chiave di volta fondamentale) tra due generazioni: da un lato, quella di Carozzi — gli ex-TQ che vivono il collasso dei sogni della propria giovinezza in un affastellarsi di precarietà esistenziale, senso di sconfitta e ridimensionamento quasi quotidiano di qualsiasi obiettivo — dall’altro, quella di ragazzi giovanissimi, under 20, che di obiettivi proprio non ne hanno. L’autore cerca di capire se per loro la trap significa in qualche modo aprire la finestra della stanza in cui si sono isolati per produrre una musica introflessa, quasi elementare, che suggerisce disagio, depressione e un senso di alienazione lampantissimi, ricevendo come risposta l’esatto opposto: “la trap non c’entra niente con la depressione”, dice uno dei ragazzi, concentrandosi piuttosto sull’idea di successo, dove successo diventa sinonimo di ostentazione, oggettificazione, consumo sfrenato.
Che sia vero o meno questo episodio (anche L’età della tigre si muove in quella zona mista narrativa che danza sul confine tra finzione, reportage e autofiction), spiega benissimo il vero obiettivo di questo libro: raccontare gli effetti plastici del realismo capitalista sulla vita delle persone quando questa ideologia, ormai inevitabile, è permeata così tanto da non essere nemmeno più percepita, ma semplicemente vissuta. La trap qui diventa il sintomo — forse il sintomo per eccellenza — della nostra epoca. Il linguaggio, sia musicale che lirico, attraverso cui analizzare l’evoluzione di questo periodo storico pervaso da una spettacolarizzazione autobiografica costante, l’ostentazione della merce portandone il feticismo a livelli mai visti, l’alienazione di individui che hanno “rinunciato” senza saperlo e si chiudono nelle loro stanze e fare musica storditi da droghe e psicofarmaci.
In effetti L’età della tigre si stacca dal racconto apologetico della trap (“il nuovo punk”; “lo spirito del tempo”) per analizzarne invece le matrici di disagio, il grido di disperazione, l’apertura all’abisso quasi come se fosse una bussola per orientarsi nella cartografia dell’iperconnessione
Sfera Ebbasta è lo spettro, una manifestazione del capitalismo nella sua ultima evoluzione (in attesa della prossima). Appare come immagine pubblicitaria gigante in giro per Milano — una Milano, tra l’altro, in cui Carozzi legge in filigrana la contraddizione del successo svuotante, come se dentro questo essere place to be ci fosse in realtà il meccanismo stesso per cui prima o poi scoppierà — come avatar di se stesso mentre “sboccia” champagne a favore di smartphone; come matrice di una vita precedente quando il protagonista del libro incontra in un’azienda alla periferia dell’Impero (e cioè di Milano) un giovane sedicenne che guarda tutti con aria di superiorità e voglia di farcela e si domanda se questo ragazzo non è proprio il futuro Sfera Ebbasta.
In effetti L’età della tigre si stacca dal racconto apologetico della trap (“il nuovo punk”; “lo spirito del tempo”) per analizzarne invece le matrici di disagio, il grido di disperazione, l’apertura all’abisso — qui manifestata dalla svolta solista di Side della Dark Polo Gang, che lascia tutti per non parlare più di bitches ma di depressione — quasi come se fosse una bussola per orientarsi nella cartografia dell’iperconnessione, quel fenomeno contemporaneo che per la psicologa Jean Twenge è alla base dell’incapacità dei ragazzi di affrontare la vita contemporenea. Ma evita al tempo stesso lo sguardo moralista e/o paternalista, anzi: c’è molta empatia, molta vicinanza, molta volontà di comprensione proprio perché il punto di partenza è colmare una distanza tra vittime di un tempo esausto. E se c’è una vera analisi della sconfitta, qui, è quella che Carozzi stesso fa della sua generazione e della sua esperienza come “vettore” delle proprie istanze generazionali. «Fosse stato per l’autore» — si legge nella quarta di copertina — «in copertina ci sarebbe una foto della nonna o quella in bianco e nero di uno specchio impolverato, a cui si accenna a un certo punto nel testo, dove è scritta la parola “SALARIO”». Concentrarsi sulla parola SALARIO è appunto il centro, lo snodo, il momento di passaggio tra le parti. Tra un capitale che ti usa e non ti riconosce nemmeno lo sforzo di esserti fatto usare, e l’immaterialità della soddisfazione dello spettacolo permanente. Tra la sensazione di sconfitta e perdita, e di rassegnazione e inconsapevolezza. In sottofondo, la colonna sonora che batte il tempo attraverso il ritmo imperfetto di una batteria elettronica e il racconto alieno di una voce “rettile” modulata dall’auto-tune.